Mi rendo contro, vivendo questa (post)-modernità, soprattutto attraverso la gente che incontro perché in qualche modo soffre, che lo stile di vita contemporaneo sia il nomadismo – anche del pensiero.

Esseri umani che vagano, continuamente in viaggio, come metafora di questa contemporaneità in moto perpetuo.

Lo stesso si potrebbe dire del pensiero: un pensiero ribelle, senza vincoli né legami.

È un pensiero nomade che ha abbandonato l’idea di un ritorno. È un Ulisse solitario senza Itaca.

I nomadi contemporanei, tuttavia, si sentono a loro agio in più luoghi (Marc Augè li avrebbe chiamati “non luoghi”) mossi dal principio della mobilità universale.

Siamo in una cornice che, soprattutto se si è giovani, ci ingiunge di muoverci, essere veloci, scattanti, performanti.

Come reagire allora di fronte a quest’accelerazione forzata, a questa transumanza esistenziale? È possibile invocare un po’ di stanzialità senza correre il rischio di essere fuori tempo e fuori moda?

La filosofa italiana Francesca Rigotti ha cercato di rispondere a questi quesiti proponendo il modello del “pensiero pendolare” (da cui il libro).

Vi è suggerita l’idea di un cambiamento/movimento con uno o più punti di riferimento fissi cui poter tornare. Rifacendosi alla saggezza del pendolo; esso è sospeso, pende, si muove, oscilla, prende e riporta, va e viene, alla ricerca costante di qualcosa che soddisfi l’inquietudine dell’animo umano.

Il “pensiero pendolare” riconosce punti fissi (fisici e dello spirito), come persone/posti cari e famiglia, intesi come luoghi stanziali. Una metafora – questa del pendolo, come risposta all’ossessione del correre e all’accelerazione sfibrante del nostro tempo.

Forse, in principio, andrebbe solo chiarita una questione: siamo davvero disposti  a rinunciare all’immortalità per far ritorno a Itaca?