Che la psicologia non sia messa bene epistemologicamente è noto. Sia per la natura di ciò che studia sia per l’inclinazione umana a costruire pseudo-fatti per difendere teorie a cui si affeziona per poi usarle tautologicamente per spiegare (e guarire) presunte “malattie mentali”. E poco importa – citando Hegel “se i fatti non si adeguano alla teoria, allora tanto peggio per i fatti”. Per forma mentis (ereditata erroneamente dalle scienze forti), come categoria, siamo refrattari a formulazioni complicate seppur cercando di catturare l’oggetto di studio le cui trame sono fitte varietà comportamentali figlie della soggettività. Sto parlando delle “scienze” psicologiche e di quelle psichiatriche che vanno sempre più attestandosi sul versante biologico-naturalistico e sempre meno sul versante propriamente umano, anche se l’uomo continua ad essere l’oggetto specifico della loro competenza. Come se dati statistici e di testistica possano aiutare a capire cosa passa nel vissuto dell’Altro – anche se rassemblare dati grezzi o somministrare test, per quanto donino un’immagine di scientificità e professionalità allo psicologo, poco ci dicono di ciò che presumiamo misurare.

Questa fiducia cieca nella scienza è nutrita appunto dall’affidabilità della metodologia della ricerca e il suo effetto sulla realtà. La diagnosi, quindi, sempre ambigua è suscettibile all’interpretazione, viene usata come strumento di avvicinamento al sapere specialistico ma allo stesso tempo è anche un modo per connotare moralmente l’Altro. Oggi, dilaga una un modus operandi che guarda ai sintomi e prescrive i farmaci senza minimamente preoccuparsi di “cosa ci sia dietro i sintomi (di una “depressione” ad esempio) e di come ogni paziente viva attraverso la sua soggettività modi d’essere per così dire alternativi a una norma. A differenza di quanto accade in medicina, infatti, in psicologia i sintomi non sono dati oggettivi, ma esperienze vissute che hanno una dimensione narrativa e storica, quindi più vicina alle scienze “umane” che a quelle “esatte”.

Ma esiste un sapere capace di scavare dietro il sintomo e di entrare in comunicazione con i vissuti di chi soffre? Esiste e si chiama Psicoterapia costruttivista (fenomenologica, interazionista…), atta a comprendere il disagio mentale dal punto di vista psicologico, al di là di quanto si possa apprendere dai corsi di anatomia, biologia, neurofisiologia, statistica, teoria e tecniche dei test. Contro questo modo di fare psicologia e psichiatria, in Italia conducono la loro quasi solitaria battaglia psichiatri come Eugenio Borgna, Piero Cipriani e sempre più studiosi di materie umanistiche che non vogliano comprimere e pietrificare nelle definizioni psichiatriche stati d’ animo fluttuanti e mutevoli, esperienze vissute, ferite inferte e subite che sembrano allontanare chi ne è afflitto da una “norma” che resta comunque e sempre complessa e astratta (quindi non misurabile). Secondo questi illustri pensatori, infatti, non si fa diagnosi e cura se si trascura quel tratto specifico dell’uomo che è quello di essere in perenne comunicazione con sé e con gli altri (interazionismo), per cui in ogni dialogo, in ogni colloquio siamo aperti al mondo degli altri e al nostro mondo interiore nella loro continua e dialettica volta al cambiamento di entrambe le parti (paziente e terapeuta).

Iniziare una conoscenza, seppur provvisoria con il grimaldello delle diagnosi “oggettive” e con cure esclusivamente farmacologiche, significa spegnere non solo il dialogo, ma svuotare di ogni significato il disagio dell’Altro. Senza colloquio c’è il misconoscimento della soggettività e certamente non è possibile restaurare la soggettività, sempre cercata e sempre perduta, con pratiche terapeutiche che non hanno in vista il soggetto, ma solo il sintomo e il disturbo sociale che crea. Sin-tomo è parola greca che significa “accadere insieme”. Insieme al sintomo accade un vissuto soggettivo che la psicoterapia dovrebbe cercare di “comprendere” mentre le psicologie a orientamento naturalistico si affannano a “spiegare” con il metodo della scienza e della natura, ottenendo come risultato una fotografia che nulla restituisce della fluttuazione dei vissuti dell’Altro inteso solo come oggetto, tuttalpiù soggetto ma sperimentale.

Per questo occorre essere “in relazione”, “essere in dialogo” anche se, come già scriveva Kafka: “prescrivere ricette è facile, parlare con la gente è molto più difficile”. Difficoltà intrinseca alla natura utopica della soggettività (mai riducibile a schemi o protocolli) perchè oscilla intorno a quel limite che si muove tra il comprensibile e l’incomprensibile. Si potrebbe cominciare dall’ascoltare, che non è una conseguenza che deriva dal parlare insieme, ma ne è piuttosto il presupposto. Quando accade di sentirsi ascoltati per davvero, accade un’esperienza che tocca in profondità e può innescare cambiamenti reali nella vita di un essere umano. Molti parlano, pochi lasciano parlare, quasi nessuno ascolta…Eppure sarebbe proprio questo il compito dello psicologo, no?