Nonostante la prevenzione al suicidio sia uno dei temi più rilevanti e complessi nelle agende di chi si occupa di salute mentale, in Italia non ci sono dati aggiornati su questo tema. Dal 2017 a oggi non si trovano statistiche ufficiali sulle persone che si sono tolte la vita, nemmeno riferite al 2020, anno particolarmente difficile. I dati Istat più recenti arrivano al 2017, e parlano di 4 mila suicidi l’anno in media negli anni precedenti alla pandemia e la cronaca è sempre più fitta di casi di questo genere.
Come testimoniano i media, il suicidio è certamente il più violato fra i tabù e rimane nondimeno la percezione di uno scandalo, un gesto inaccettabile. Il diritto lo ha giudicato per molto tempo un reato, la religione lo considera peccato, la società lo rifiuta giustificandolo con la follia o la tanto inflazionata “depressione”. Sarà infatti proprio la psichiatria a sottrarlo, in parte, all’influenza della legge, interpretandolo come evento patologico. È possibile quindi guardare al suicidio da diverse posizioni e ognuno di questi punti di vista si riconduce ad una posizione etica da cui deriva un giudizio nei confronti del suicidio.
Eppure un suicidio non è un omicidio delegato, non ha un killer, un mandante e non è nemmeno colpa della società. Altrimenti quasi tutti i suicidi avrebbero un sicario (salvo chi si uccide perché è un malato terminale o altre eccezioni). Chi si ammazza per l’amore deluso o tradito, è stato ucciso da chi lo ha lasciato? Chi si suicida perché è stato licenziato è stato ucciso da chi lo ha licenziato? Chi si suicida perché la sua impresa è fallita, è stato ucciso da chi ha determinato la situazione di crisi? La causa principale dei suicidi non è nemmeno colpa di quello fatto, di quello non fatto o di quello che si sarebbe potuto fare: è la fragilità, la mancata sovrapposizione tra aspettative e realtà, tra ambizioni e risultati; ma è anche per l’assenza di punti saldi di riferimento, l’abbandono o la perdita degli affetti principali.
Non è possibile assistere ogni volta che una persona si suicida alla caccia all’assassino e alla trasfigurazione del suicida in vittima di qualcuno o qualcosa: l’episodio antecedente, il messaggio sul telefonino, il filmino delle ore precedenti… Le motivazioni di chi si uccide non possono essere ridotte a questo banale schemino: “suicidio-depressione”, “suicidio-problemi finanziari”, “suicidio-problemi amorosi”…C’è sempre un movente cupo e profondo, invisibile a chi lo conosceva solo superficialmente e che magari credeva di conoscerlo bene in virtù di qualche scambio relazionale superficiale.
Il disagio ha radici più lunghe, più oscure e più ramificate e se scavate tra le persone che si sono suicidate troverete tormenti meno banali di un episodio di bullismo, un litigio, problemi finanziari o famigliari. Il problema risale alla propria condizione umana e non semplicemente al teatrino dei media che mette in prima pagina un capro espiatorio fantoccio; è un problema che risale alla propria vita e alle sue lacerazioni e non si risolve additando un colpevole, magari una categoria diagnostica.
Un occhio poco allenato alle vite dell’altro non intuisce quanti drammi, quanta fragilità e quanti abissi di perdizione hanno attraversato chi ha compiuto l’ultimo gesto. Bisogna avere più rispetto per i loro drammi, per la loro storia e per il loro tragica scelta. Una persona è un intreccio di piani, di desideri inevasi, di vite mancate o subite. Chi decide ti togliersi la vita ha una storia interiore e una esteriore che spesso non coincidono. Non siamo esseri privi di intenzionalità, anche di decidere ciò che offende la morale comune.
Ecco perchè è più facile andare in cerca dei colpevoli che hanno traviato il destino di “un uomo felice” aprendo subito la caccia per trovare il mandante dell’assassinio. Ma il mandante non è un deus ex machina, il killer è dentro di noi; dentro a quell’involucro misterioso che James Hillman chiamerebbe “anima”, e che “oscura la mente, incrina il cuore e arma la mano per il gesto mortale”. Abbiate pietà di lui e di chi lo piange, anziché cercare vendetta o spiegazioni inutili in quanto postume – poichè come diceva Sartre: “L’unica persona in grado di comprendere una morte è la persona che è morta”.