La malattia mentale non è mai solo un fatto privato: la diagnosi della depressione racconta ciò che provo o ciò di cui sono affetto ma non mi dice niente delle spinte storiche, economiche e politiche che hanno alimentato o generato la condizione in cui vivo.
Perché mi sento sempre inadeguato? Cosa mi spinge a ritenermi costantemente poco valido e scarsamente performante? Quali sono gli effetti sulla mia psiche se non ho tempo, risorse materiali o stabilità economica? Chi sono oltre a ciò che faccio? Non ce l’ho fatta perché non mi sono impegnato abbastanza?
Affermare che, ad esempio, la mia depressione possa avere una radice politica non significa negare le cause medico-neurologiche della patologia, ma nemmeno aderire all’ingenua convinzione che uno psicologo o un farmaco possano, con poteri sovrumani, farsi carico delle contraddizioni di un sistema che stritola le persone e ne aggrava le debolezze. Politicizzare la malattia significa non accontentarsi di resistere o di anestetizzare i problemi, ma rileggerli nella loro sfera multidimensionale, che comprende cause ed effetti di natura tanto individuale quanto, appunto, collettiva.
Concepire la malattia mentale come un solo problema biochimico offre una sponda allo status quo, perché alimenta il circolo vizioso della privatizzazione sistemica della patologia stessa e alla sua progressiva depoliticizzazione (anche l’arretramento della spesa pubblica nella Sanità, con un nemmeno troppo sottile messaggio che suona come “Arrangiati e pagati i tuoi mali” fa parte della stessa produzione ideologica). La privatizzazione del malessere trasforma la malattia mentale in un’anomalia esterna al ciclo economico e sociale in cui viviamo, legittimando i processi e i meccanismi che invece ne caratterizzano l’ossatura.
Stare male in un sistema malato è devastante, nella misura in cui la corsa al profitto rende gli individui che necessitano di una pausa delle zavorre alla crescita. E quindi, per loro natura, a rischio di esclusione sociale. Come degli scarti….
Cosa vorrei? Vorrei essere infelice in una società che metta la felicità al primo posto, in cui la mia identità non sia un’emanazione del mio valore produttivo, in cui il mio benessere sia anche e soprattutto collettivo. Ovvero un sistema in cui le cause sociali del malessere siano centrali nell’equazione che regola l’iniziativa politica e non derubricate al solo status di “esternalità negative del processo economico”, come invece accade oggi.
di Alessandro Sahebi
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