La vita di ciascuno di noi non è altro che il racconto che ne facciamo, che riusciamo a farne.
La psicoterapia infatti è prevalentemente una narrazione di re-definizione e insieme co-costruzione della realtà stessa. È un racconto in sé e per sé, una narrazione, un discorso.
Non abbiamo che parole: è tutto ciò che possiamo fare.
Che questo sia vero sempre, nel bene come nel male, nella gioia come nei drammi, lo confermano soprattutto i protagonisti della realtà carceraria. In una situazione estrema, com’è quella della detenzione in un carcere, la parola conserva il suo potere salvifico, il potere di restituire alla vita, ancora, possibili orizzonti di senso e di contenerne in sé stessa.
Mai come nelle carceri la parola assurge a strumento di emancipazione dalla claustrofobia mentale e fisica delle sbarre, delle porte blindate, degli spazi coatti. In carcere ma così come in manicomio la parola è più che mai ricerca di senso e atto di rivoluzione personale.
Sono parole nate da futuri non avverati che si trasformano, per ciascuno, in nuove possibilità, in nuove attese, in nuove speranze.
E non a caso il sentimento ricorrente più di ogni altro, in questi contesti, è la speranza, ponte che tiene legate la dimensioni del ricordo passato e la costruzione del futuro come evasione dall’ergastolo delle mancate possibilità. Ne sono testimoni Oscar Wilde nel de profundis, la nostra Alda Merini e Maria Luisa Marsigli – di cui scriverò molto presto.
Sono sempre le parole, accordate sapientemente per cantarci dolci melodie all’anima a farci evadere dalla prigione della convinzione che la realtà sia una e irreversibile.
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