

Se ti droghi la neurofisiologia non basta
Il comportamento umano, e a maggior ragione quello che definiamo riduttivamente tossicodipendente, appartiene a molteplici domini della conoscenza e nessuna disciplina per quanto evoluta può imporre i suoi metodi come unici ed esclusivi. Metodi che nella maggioranza dei casi trasformano ogni devianza, trasgressione e diversità in patologia. L’uso e abuso di droghe ci pone invece di fronte a problemi che non possono essere affrontati solo con il sapere farmacologico e l’interpretazione dello psichiatra, nè tanto meno con un approccio organicistico che tratta la tossicodipendenza come “difetto di un cervello da sistemare”.
Non è possibile infatti rinunciare a configurare l’agire umano, anche quello dei “drogati”, senza considerare il sistema di credenze, intenzioni, movimenti, sentimenti, aspirazioni, attese e tanto altro. La comprensione del mondo costruita da coloro che sono sotto l’effetto di una droga richiede nella maggior parte dei casi la comprensione del loro modo di pensare ed agire. I pregiudizi dati dal considerare il tossicodipendente come un’entità clinica oggettivata dalla sua devianza impediscono la comprensione dell’immaginario di chi fa uso di droghe.
Attorno al consumo di droghe sono nate diverse teorie e diverse modalità sia di gestione che di presa in carico del problema. L’approccio biomedico si basa sulla teoria “dell’esistenza del corpo” dove la malattia è di esclusiva matrice corporea. Di conseguenza ci troviamo all’interno di un processo che parte dall’anamnesi per arrivare alla cura, ma limitato dal punto di vista della considerazione della persona e della sua “malattia”. Tale modello, quindi, affronta il tema delle dipendenze a partire dalla classificazione fatta dall’OMS che definisce la tossicodipendenza come una malattia ad andamento cronico e recidivante, sostenendo che alla base della dipendenza da una droga vi siano anomalie, disfunzioni fisiologiche o biochimiche. Possiamo evincere che tale modalità operativa si basa solo ed esclusivamente sulla cura della malattia da un punto di vista medico/farmacologico senza considerare la persona nella sua totalità.
L’approccio biopsicosociale, invece, nasce dalla necessità di prendere in considerazione l’individuo nella sua multifattorialità, attuando degli interventi volti a generare “salute”. Di conseguenza l’approccio farmacologico e quello psico-socioterapeutico sono in sinergia. La dipendenza viene analizzata secondo diversi fattori: natura biologica (genetica, neurologica), psicologica (mentale) e sociale (contesto e relazioni). Qui la persona è posta al centro di un sistema che si occupa di molteplici variabili che interagiscono tra loro e sono in grado di influenzare il decorso della malattia. Il modello biopsicosociale, inoltre, pensa le dipendenze in termini di devianza, vale a dire che contestualizza le azioni di uso e abuso di sostanze anche come trasgressione a una norma morale socialmente condivisa. (Non dimentichiamo che un determinato comportamento se ridotto entro un quadro di spiegazione e intervento formalmente medico, talvolta, viene “sanzionato” con lo strumento della diagnosi e della cura poiché infrange norme sociali mascherate da norme biologiche). Non ribadiremo mai abbastanza che la “mente” non è l’alter ego del corpo biologico in medicina!
Apparirà ora più chiaro al lettore che entro una cornice come quella del modello biopsicosociale si restituisce al comportamento di consumo di droghe una conoscenza che si avvicina maggiormente alla complessità del fenomeno.
Che vengano assunte come rimedio esistenziale, cura di sé, sostegno all’autoefficacia, per la trascendenza e altro, le droghe non possono essere separate nei loro effetti psicobiologici dai significati soggettivi che ogni consumatore attribuisce alla propria esperienza di consumo, riferimento importantissimo per ogni sistema d’identità.
Nel suo Paradisi artificiali, Baudelaire, riferendosi agli effetti prodotti dall’hashish, scriveva che l’effetto della droga dilata l’esperienza limitandosi a rifletterla come uno specchio che non aggiunge niente di suo. Ciò sfata il mito di un potere estrinseco alla sostanza, capace di creare dal nulla sensazioni e indurre modificazioni radicali nelle caratteristiche individuali. Accettare che la droga non produca ma amplifichi, sentimenti ed emozioni già presenti nell’individuo, significa relegare la chimica in secondo piano e sensibilizzarsi maggiormente al sistema di credenza del consumatore.
Lo capiremmo ancor di più se vi raccontassimo del nlem vore, uno stato mentale che la comunità buitista dei Fang del Gabon raggiunge sotto effetto di iboga. Ma questa storia, che non è una canzone di Battiato, ve la racconteremo un’altra volta.
Con la Dott.ssa Elisa Piali – Psicologa delle Dipendenze

Note dal carcere

La privatizzazione del malessere

Un volontario fine vita
Nonostante la prevenzione al suicidio sia uno dei temi più rilevanti e complessi nelle agende di chi si occupa di salute mentale, in Italia non ci sono dati aggiornati su questo tema. Dal 2017 a oggi non si trovano statistiche ufficiali sulle persone che si sono tolte la vita, nemmeno riferite al 2020, anno particolarmente difficile. I dati Istat più recenti arrivano al 2017, e parlano di 4 mila suicidi l’anno in media negli anni precedenti alla pandemia e la cronaca è sempre più fitta di casi di questo genere.
Come testimoniano i media, il suicidio è certamente il più violato fra i tabù e rimane nondimeno la percezione di uno scandalo, un gesto inaccettabile. Il diritto lo ha giudicato per molto tempo un reato, la religione lo considera peccato, la società lo rifiuta giustificandolo con la follia o la tanto inflazionata “depressione”. Sarà infatti proprio la psichiatria a sottrarlo, in parte, all’influenza della legge, interpretandolo come evento patologico. È possibile quindi guardare al suicidio da diverse posizioni e ognuno di questi punti di vista si riconduce ad una posizione etica da cui deriva un giudizio nei confronti del suicidio.
Eppure un suicidio non è un omicidio delegato, non ha un killer, un mandante e non è nemmeno colpa della società. Altrimenti quasi tutti i suicidi avrebbero un sicario (salvo chi si uccide perché è un malato terminale o altre eccezioni). Chi si ammazza per l’amore deluso o tradito, è stato ucciso da chi lo ha lasciato? Chi si suicida perché è stato licenziato è stato ucciso da chi lo ha licenziato? Chi si suicida perché la sua impresa è fallita, è stato ucciso da chi ha determinato la situazione di crisi? La causa principale dei suicidi non è nemmeno colpa di quello fatto, di quello non fatto o di quello che si sarebbe potuto fare: è la fragilità, la mancata sovrapposizione tra aspettative e realtà, tra ambizioni e risultati; ma è anche per l’assenza di punti saldi di riferimento, l’abbandono o la perdita degli affetti principali.
Non è possibile assistere ogni volta che una persona si suicida alla caccia all’assassino e alla trasfigurazione del suicida in vittima di qualcuno o qualcosa: l’episodio antecedente, il messaggio sul telefonino, il filmino delle ore precedenti… Le motivazioni di chi si uccide non possono essere ridotte a questo banale schemino: “suicidio-depressione”, “suicidio-problemi finanziari”, “suicidio-problemi amorosi”…C’è sempre un movente cupo e profondo, invisibile a chi lo conosceva solo superficialmente e che magari credeva di conoscerlo bene in virtù di qualche scambio relazionale superficiale.
Il disagio ha radici più lunghe, più oscure e più ramificate e se scavate tra le persone che si sono suicidate troverete tormenti meno banali di un episodio di bullismo, un litigio, problemi finanziari o famigliari. Il problema risale alla propria condizione umana e non semplicemente al teatrino dei media che mette in prima pagina un capro espiatorio fantoccio; è un problema che risale alla propria vita e alle sue lacerazioni e non si risolve additando un colpevole, magari una categoria diagnostica.
Un occhio poco allenato alle vite dell’altro non intuisce quanti drammi, quanta fragilità e quanti abissi di perdizione hanno attraversato chi ha compiuto l’ultimo gesto. Bisogna avere più rispetto per i loro drammi, per la loro storia e per il loro tragica scelta. Una persona è un intreccio di piani, di desideri inevasi, di vite mancate o subite. Chi decide ti togliersi la vita ha una storia interiore e una esteriore che spesso non coincidono. Non siamo esseri privi di intenzionalità, anche di decidere ciò che offende la morale comune.
Ecco perchè è più facile andare in cerca dei colpevoli che hanno traviato il destino di “un uomo felice” aprendo subito la caccia per trovare il mandante dell’assassinio. Ma il mandante non è un deus ex machina, il killer è dentro di noi; dentro a quell’involucro misterioso che James Hillman chiamerebbe “anima”, e che “oscura la mente, incrina il cuore e arma la mano per il gesto mortale”. Abbiate pietà di lui e di chi lo piange, anziché cercare vendetta o spiegazioni inutili in quanto postume – poichè come diceva Sartre: “L’unica persona in grado di comprendere una morte è la persona che è morta”.

Louis Wain e i 1000 volti dei suoi gatti psicotici
Louis Wain (1860-1939) era un pittore inglese nato con una deformazione del volto e per tale motivo fu consigliato ai suoi genitori di non mandarlo a scuola fino a quando non avesse compiuto l’età di dieci anni. Ciò non gli impedì di iscriversi alla London School of Art in cui, successivamente, ricoprì anche il ruolo di insegnante di materie artistiche, seppur per un breve periodo di tempo.
A 23 anni infatti, sposò Emily di 10 anni più grande e andò a vivere con lei a nord di Londra. Ma ben resto la moglie si ammalò di cancro e morì ad appena tre anni dal loro matrimonio. Durante la malattia Emily trovò conforto nella compagnia di un gattino randagio bianco e nero, chiamato Peter, che i due sposi avevano accolto una notte sentendolo miagolare sotto la pioggia. Da quel momento Wain scoprì il soggetto che avrebbe caratterizzato tutta la sua carriera ma purtroppo Emily muore prima di vedere realizzato il progetto artistico con protagonista il loro gattino. Fu da quel momento che Louis, probabilmente per contrastare la disperazione, cominciò ad avere una visione della realtà tutta sua.
Da quel momento sviluppò una nuova visone dell’arte confezionando non convenzionali prodotti d’arte che differiscono considerevolmente dal loro usale modo d’espressione. I drammatici cambiamenti della percezione che accompagnarono questo suo cambiamento stilistico sono chiaramente raffigurati da una serie di ritratti di un gatto che mostrano tutte le transizioni, dalle rappresentazioni realistiche dell’animale a disegni geometrici e astratti che hanno uno scarso legame la realtà ontologica.
Ma cosa succede “nella testa” di chi vive insolite esperienze estetiche ed intuizioni diverse che alterano la natura del processo creativo? Durante un episodio di allucinazioni (che si possono indurre anche spontaneamente in molteplici modi), non occasionalmente, i soggetti esperiscono la crescente geometrizzazione della realtà e la progressiva disintegrazione del colore e della forma. La messa a fuoco dell’occhio è piuttosto difficile, i contorni degli oggetti sono percepiti confusi. Tutto appare in un movimento ondulatorio, e gli oggetti inanimati sono frequentemente descritti come se si animassero. Un cambiamento percettivo caratteristico è la geometrizzazione dei volti umani, soprattutto degli animali e degli oggetti. Chi sperimenta tali cambiamenti propriocettivi riferisce una percezione cambiata nella comprensione della propria arte e di quella altrui sviluppando empatia verso di loro. Il campo visivo diviene sempre più offuscato e si restringe progressivamente. L’area percepita perde i suoi punti di riferimento spaziali e logici con il mondo circostante e diventa un microcosmo esperenziale autonomo.
Sebbene non sia mai stata diagnosticata ufficialmente, si crede fosse stata la schizofrenia ad aprire la porta su forme e colori astratti, lontani dalla realtà. La controversia sulla malattia mentale si accese quando la concezione del modello schizofrenico fu attaccato da psichiatri di orientamento fenomenologico e rigettato dalla maggior parte di clinici sensibili che compresero essere inappropriato etichettare le visioni dell’artista vittoriano come psicotiche. Altra opinione diffusa tra i critici circa la natura dei gatti psichedelici o astratti è considerarli semplicemente espressione della ricerca condotta dall’artista verso nuove possibilità percettive sperimentando tecniche di allargamento della coscienza dove potesse trovare risposta alle domande inevase della vita.
Nel 1924, quando le sue sorelle non poterono più far fronte al suo comportamento alterato a alle sue stramberie fu ricoverato in manicomio dove passerà il resto dei suoi giorni fino alla morte continuando a disegnare gatti umanizzati: gatti che versano il tè, che giocano a golf, gatti intenti a leggere o a giocare a palla, gatti seduti comodamente a discutere, gatti che maneggiano dell’uva, gatti che addirittura fumano il sigaro seduti a tavola e gatti psichedelici dipinti come quando si è sotto effetto di mescalina. Insomma, gatti in tutto e per tutto antropomorfi. Questi animali erano l’espressione vivida e a lui rassicurante di un mondo idilliaco, e in qualche modo a sfondo onirico che di certo l’internamento manicomiale non ha aiutato l’artista a integrare le sue esperienze interne nella vita quotidiana.
Wain si impegnò attivamente tutta la vita con molte associazioni benefiche a favore degli animali in generale e dei gatti in particolare – all’epoca disprezzati in Inghilterra continuando a circondarsi di quegli animali che furono la sua unica forma di auto-terapia.
Le serie dei suoi dipinti oggi sono comunemente usate nei libri di psicologia per dimostrare quello che si ritiene essere il mutamento del suo stile al deteriorarsi delle sue condizioni psicologiche. Tuttavia, ho la netta convinzione che la sua ricerca estetica del proprio modo di percepire fuori dall’ordinario (è lì che sta l’arte, non la malattia mentale) fosse a lui funzionale per ricevere lo stesso conforto che cercava e otteneva sua moglie Emily dal loro gattino Peter. Possiamo infatti considerarlo anche il precursore della pet therapy.

I Test e la banalizzazione dell’Altro
Che la psicologia non sia messa bene epistemologicamente è noto. Sia per la natura di ciò che studia sia per l’inclinazione umana a costruire pseudo-fatti per difendere teorie a cui si affeziona per poi usarle tautologicamente per spiegare (e guarire) presunte “malattie mentali”. E poco importa – citando Hegel “se i fatti non si adeguano alla teoria, allora tanto peggio per i fatti”. Per forma mentis (ereditata erroneamente dalle scienze forti), come categoria, siamo refrattari a formulazioni complicate seppur cercando di catturare l’oggetto di studio le cui trame sono fitte varietà comportamentali figlie della soggettività. Sto parlando delle “scienze” psicologiche e di quelle psichiatriche che vanno sempre più attestandosi sul versante biologico-naturalistico e sempre meno sul versante propriamente umano, anche se l’uomo continua ad essere l’oggetto specifico della loro competenza. Come se dati statistici e di testistica possano aiutare a capire cosa passa nel vissuto dell’Altro – anche se rassemblare dati grezzi o somministrare test, per quanto donino un’immagine di scientificità e professionalità allo psicologo, poco ci dicono di ciò che presumiamo misurare.
Questa fiducia cieca nella scienza è nutrita appunto dall’affidabilità della metodologia della ricerca e il suo effetto sulla realtà. La diagnosi, quindi, sempre ambigua è suscettibile all’interpretazione, viene usata come strumento di avvicinamento al sapere specialistico ma allo stesso tempo è anche un modo per connotare moralmente l’Altro. Oggi, dilaga una un modus operandi che guarda ai sintomi e prescrive i farmaci senza minimamente preoccuparsi di “cosa ci sia dietro i sintomi (di una “depressione” ad esempio) e di come ogni paziente viva attraverso la sua soggettività modi d’essere per così dire alternativi a una norma. A differenza di quanto accade in medicina, infatti, in psicologia i sintomi non sono dati oggettivi, ma esperienze vissute che hanno una dimensione narrativa e storica, quindi più vicina alle scienze “umane” che a quelle “esatte”.
Ma esiste un sapere capace di scavare dietro il sintomo e di entrare in comunicazione con i vissuti di chi soffre? Esiste e si chiama Psicoterapia costruttivista (fenomenologica, interazionista…), atta a comprendere il disagio mentale dal punto di vista psicologico, al di là di quanto si possa apprendere dai corsi di anatomia, biologia, neurofisiologia, statistica, teoria e tecniche dei test. Contro questo modo di fare psicologia e psichiatria, in Italia conducono la loro quasi solitaria battaglia psichiatri come Eugenio Borgna, Piero Cipriani e sempre più studiosi di materie umanistiche che non vogliano comprimere e pietrificare nelle definizioni psichiatriche stati d’ animo fluttuanti e mutevoli, esperienze vissute, ferite inferte e subite che sembrano allontanare chi ne è afflitto da una “norma” che resta comunque e sempre complessa e astratta (quindi non misurabile). Secondo questi illustri pensatori, infatti, non si fa diagnosi e cura se si trascura quel tratto specifico dell’uomo che è quello di essere in perenne comunicazione con sé e con gli altri (interazionismo), per cui in ogni dialogo, in ogni colloquio siamo aperti al mondo degli altri e al nostro mondo interiore nella loro continua e dialettica volta al cambiamento di entrambe le parti (paziente e terapeuta).
Iniziare una conoscenza, seppur provvisoria con il grimaldello delle diagnosi “oggettive” e con cure esclusivamente farmacologiche, significa spegnere non solo il dialogo, ma svuotare di ogni significato il disagio dell’Altro. Senza colloquio c’è il misconoscimento della soggettività e certamente non è possibile restaurare la soggettività, sempre cercata e sempre perduta, con pratiche terapeutiche che non hanno in vista il soggetto, ma solo il sintomo e il disturbo sociale che crea. Sin-tomo è parola greca che significa “accadere insieme”. Insieme al sintomo accade un vissuto soggettivo che la psicoterapia dovrebbe cercare di “comprendere” mentre le psicologie a orientamento naturalistico si affannano a “spiegare” con il metodo della scienza e della natura, ottenendo come risultato una fotografia che nulla restituisce della fluttuazione dei vissuti dell’Altro inteso solo come oggetto, tuttalpiù soggetto ma sperimentale.
Per questo occorre essere “in relazione”, “essere in dialogo” anche se, come già scriveva Kafka: “prescrivere ricette è facile, parlare con la gente è molto più difficile”. Difficoltà intrinseca alla natura utopica della soggettività (mai riducibile a schemi o protocolli) perchè oscilla intorno a quel limite che si muove tra il comprensibile e l’incomprensibile. Si potrebbe cominciare dall’ascoltare, che non è una conseguenza che deriva dal parlare insieme, ma ne è piuttosto il presupposto. Quando accade di sentirsi ascoltati per davvero, accade un’esperienza che tocca in profondità e può innescare cambiamenti reali nella vita di un essere umano. Molti parlano, pochi lasciano parlare, quasi nessuno ascolta…Eppure sarebbe proprio questo il compito dello psicologo, no?

Miracolo! La varietà delle verità delle esperienze religiose
Parlare di miracoli è un terreno minato in quanto vi è costante la possibilità di essere fraintesi e di offendere la sensibilità di chi crede; ma preciso immediatamente che non si vuole in alcun modo mettere in discussione la fede di chi crede: si cerca soltanto di analizzare il fenomeno e il loro manifestarsi dal punto di vista psicologico.
In Italia circa il 15% della popolazione italiana non è credente. Di contro ci sono migliaia di persone che credono nei miracoli: luoghi di culto come Medjugorje, di Lourdes e di Fatima attirano decine di migliaia di fedeli nel mondo sostenuti dal mito delle apparizioni. Parlare di miracoli in Italia significa riferirsi a un fenomeno che culturalmente e storicamente è per lo più cattolico che per visione si intende una comprensione immediata, chiara, diretta e sentita come indubitabile della presenza di Dio o di un fenomeno soprannaturale. Kenneth Woodward, esperto di questioni religiose, nel suo “La fabbrica dei santi” afferma che i miracoli sono sempre esistiti all’interno della tradizione religiosa o di un determinato “costrutto sociale”. Il Buddismo ad esempio riconosce le visioni del principe Siddartha e le sette ebraiche riconoscono le capacità “magiche” di guarigione di alcuni rabbi.
Oggi, alle soglie del terzo millennio, come secoli fa, la gente vuole ancora miracoli. Si pubblicano dispense dedicate alla vita dei profeti con videocassetta. I più diffusi settimanali italiani dedicano servizi a chi si dice in contatto con l’aldilà. Ogni tot si ha notizia di un nuovo veggente al quale la Madonna comunica messaggi. I miracoli classici sono un business che non conosce crisi. La frequenza di questi fenomeni, ci impedisce di negarli e dal non volerli analizzare, basti pensare a John Nash interpretato da Russell Crowe nel film Beautiful Mind. Il matematico ebbe esperienze molto simili a queste di tipo religioso, ma essendo i contenuti diversi, non di enti sacri come madonne ecc., venne diagnosticato schizofrenico. Lui stesso in un’intervista rispondendo una domanda sulle sue allucinazioni rispose. “è molto pericoloso ammettere di sentire delle voci o di avere delle visioni – a meno che si tratti di cose religiose” – perché il quel caso verrebbe preso come un fenomeno di santità. Un’affermazione che riconduce inevitabilmente a Thomas Szasz quando affermò “Se parli a Dio, stai pregando; se Dio parla a te, sei affetto da schizofrenia. Se i morti ti parlano, sei uno spiritista; se tu parli ai morti, sei uno schizofrenico”.
In realtà, psicologicamente si tratta di fenomeno dello stesso genere. Nash cosi come i tre pastorelli di Fatima o Bernardette Soubirous hanno avuto delle esperienze psichiche che naturalmente poi interpretano dal loro punto di vista. Ed in genere coloro che hanno apparizione della Madonna, di santi o diavoli sono persone con una peculiare sfondo culturale. Se pensiamo per esempio a Bernardette o ai tre pastorelli, persone che indubbiamente agiscono sullo sfondo di un ambiente intriso di religiosità, interpretano queste esperienze secondo i costrutti di senso e di significato che gli appartengono, riferendo le cose che esperiscono alle cose che già conoscono. Le cosiddette apparizioni o “allucinazioni visive” sono il nome che diamo a una certa classe di “operazioni interattive” come ad esempio il riflesso delle relazioni che intratteniamo con noi stessi, con gli altri, con il mondo. Il risultato di questo dialogo sistemico contribuisce a costruire i diversi modi di stare al mondo attraverso la lettura di ciò che esperiamo che inevitabilmente la condiziona. Nel tentativo di dare ordine, coerenza e significato di una certa esperienza, il religioso cerca di decifrarla ricorrendo allo schema interpretativo della fede utilizzando le credenze che gli appartengono capaci di dare contenuto alle sue spiegazioni. Ciò accade perché diamo vita e presenza in maniera del tutto soggettiva alle molteplici possibilità del reale e dell’immaginato. Il modo migliore per capire le esperienze dell’altro, anche se talvolta insostenibili dalla “verità oggettiva” non dipende dall’arruolamento di opposti partiti che considerano l’allucinazione religiosa “reale” e chi un “illusione”, ma considerarla un’invenzione, una sorta di finzione discorsiva di cui abbiamo bisogno, un espediente per cercare di capire ciò che ci succede ogni volta che entriamo in relazione con una porzione del mondo (A. Salvini). E dal momento che il mondo dell’altro non può sempre assumere la forma del nostro occhio per capire il mondo dell’altro bisogna assumere il suo sguardo.
Dal punto di vista tecnico medico e psicologico, con elevatissima probabilità queste persone sarebbero catalogate sotto l’egida di qualche malattia mentale come appunto la schizofrenia. Eppure, essere dei visionari non è così facile, a cominciare dall’interpretare quello che si vede. Ciò è possibile farlo in due modi: prendendo sostanze psicoattive (e non è un incitamento a farlo), oppure andando a stimolare con degli elettrodi il lobo temporale sinistro – sembrerebbe che l’esperienza visionaria che si vive sia grossomodo simile in tutti i soggetti sperimentali. Ma ce n’è un terzo modo a mio avviso più interessante che spiega la genesi del fenomeno ed è quello che sostiene le allucinazioni e/o fenomeni di possessione come culturalmente appresi. Nei culti brasiliani come ad esempio l’umbamba, se un bambino vuole diventare medium viene incoraggiato a farlo e riceve una preparazione specifica, lo stesso vale per le sacerdotesse oracolari di Delfi. Visoni celesti o di altra colorazione possono inducersi anche durante lunghi periodi di isolamento e solitudine o avvertirle in condizioni di isolamento sensoriale. Lo stesso accade anche come possibilità di risposta a traumi di separazione o di perdita (non sono isolati casi di vedovi che dichiarano di aver sentito la presenza del coniuge morto e di averci parlato).
L’esperienza della visione è senz’altro un’esperienza reale che avviene nella nostra testa (già Gesù nel vangelo diceva “il regno di Dio è dentro di voi): quando si pensa di avere un’esperienza con l‘aldilà in realtà si sta interpretando qualcosa dell’aldiquà; dentro alla nostra testa. Il caso del cristianesimo a cui noi siamo più abituati non è l’unico, per esempio il Dalai lama, capo di una religione diversa che è il buddismo tibetano, ha messo a disposizione degli scienziati, per far fare rilevazioni mediche sulle esperienze di meditazione. A ciò si collegherebbe tutta la psico-fisiologia dell’induzione di realtà immaginate e credute vere dal nostro cervello che tanto farebbe venire voglia di scrivere di ipnosi. Di fatto ci sono molti esempi che dimostrano come individui possano allucinare visioni, suoni, odori, se viene chiesto loro di rievocare un ricordo, una musica, un profumo anche se non fattivamente presenti.
Ma torniamo ai visionari di carattere religioso e ai cosiddetti miracolati. Codesti non si trovano in psichiatria con le camicie di forza, tuttalpiù in qualche quadretto appeso nelle case di mezzo mondo. Dietro di loro infatti c’è un’istituzione, una chiesa, passano due gradi di giudizio e vengono dichiarati santi e c’è un intercesso per dei miracoli. Ma la cosa più importante da tenere in considerazione di questa fenomenologia, oggetto di studio degli psicologi più raffinati, è l’esperienza religiosa. William James nell’800 scrisse un bellissimo libro che si intitola “Le varietà dell’esperienza religiosa” che aiuta a comprendere in quanti modi si può estrinsecare un’esperienza visiva in ciò che noi definiremmo di tipo religioso.
E come la mettiamo con le guarigioni miracolose? Ci sono effettivamente dei recessi di malattie. Nash per esempio venne sottoposto a torture come il coma insulinico per guarirlo, poi a un certo punto la sua malattia è cominciata e regredire. Oggi se gli si chiede se sente ancora le voci risponde: “Ho deciso di non sentirle più” (forse per non essere sottoposto ad altre forme di repressione). Sono casi che se avulsi dal contesto religioso, potremmo chiamare guarigioni spontanee anche se spesso avvengono in concomitanza con le cure mediche a prescindere dall’attribuzione mistica-magica che si può dare alla regressione della malattia. Ne risulta un panorama di grande interesse scientifico, perché vorrebbe dire che il corpo umano ha capacità di guarigione inattese e insperate. Non sappiamo quale sia la ragione per cui alcuni sopravvivono (effetti psicosomatici, sistema immunitario, …), ma a scoprire questa ragione, sarà la scienza a farlo. Nel mio piccolo con lo sguardo curioso della psicologia.

I problemi sono tali poiché esistono le soluzioni ai problemi
Che cosa è un problema? Domanda che spesso diamo per scontata ma spesso quello che noi percepiamo come problema non è detto che lo sia. A questa domanda ciascuno potrà dare la sua risposta: “il problema è una situazione che mi da sofferenza”, “il problema è una situazione che mi blocca nel raggiungere i risultati” e via dicendo… Ognuno dice la sua posizione dal proprio punto di vista. E già il fatto che ci siano tante prospettive sul comprendere cosa sia un problema dovrebbe far pensare che non è semplice inquadrarlo.
Nel suo libro Change Paul Watzlawick scrisse: “i problemi esistono, poiché esistono le soluzioni ai problemi”. Quindi se abbiamo un problema è perchè abbiamo anche la sua soluzione. Parafrasando questa definizione potremmo altresì dire che “i problemi esistono poichè esistono le soluzioni”. Se non avessimo le soluzioni ai problemi, quello stiamo vivendo non è tecnicamente un problema.
Pensiamo per esempio alla cosa più naturale dell’essere umano: la morte. La morte tecnicamente non è un problema perchè non c’è la soluzione alla morte. Una malattia invece può essere tecnicamente un problema poichè possono esserci le soluzioni portate alla sua risoluzione (farmaci, cure….). A questo punto fatta questa precisazione la domanda che dovremmo porci è: “quello che sto vivendo è un problema o un fatto? Le situazioni che non hanno soluzione non sono problemi ma sono dati di fatto e con i dati di fatto possiamo imparare ad accettarli e a gestire qualcosa che non si può cambiare. Se invece siamo nel mondo dei problemi è possibile usare una metodologia specifica per risolverli.
Fatta questa premessa è ora importante porre l’accento su come orientarsi per trovare le soluzioni ai problemi. O meglio, sarebbe più saggio chiedersi dove cercarle perché le soluzioni sono da ricercarsi nelle dinamiche, nei processi che le persone mettono in atto nella relazione con se stessi, gli altri e il mondo. Eppure automaticamente davanti ad una situazione problematica ci viene quasi spontaneo porci la famosa domanda del “perché”. Che l’interesse sulle cause sia l’interesse primario, lo possiamo sperimentare quotidianamente quando qualcuno racconta una situazione problematica dove molto spesso quello che ci viene chiesto è “il perché”, “il come mai” di questo problema. Come se ci fosse un’innata credenza tale per cui ogni volta che noi cerchiamo il “perché” andando alla ricerca di una causa, questo ci fa pensare che nel momento in cui la trovo, in maniera automatica il problema svanisce.
Ma in realtà non c’è questa casualità lineare. Non è detto che se trovo la causa, automaticamente trovo la soluzione, poiché la ricerca di una causa nel passato mi fornisce tuttalpiù una spiegazione che può essere consolatoria ma non è di certo una soluzione. Prendere consapevolezza di qualcosa non necessariamente mi porta a saper gestire la realtà problematica. Cercare la causa di un problema e automaticamente ricercare “il colpevole” non è detto che mi aiuti nel momento presente. Anzi, magari mi aumenta la rabbia nei confronti del presunto colpevole, poi però il problema continuo ad avercelo. A ciò si aggiunga che tutte le spiegazioni dei problemi sono interpretazioni e un’interpretazione non mi aiuta operativamente nel momento presente a uscire dal problema.
Per capire meglio come una la ricerca del perchè non permette di trovare soluzione efficaci al problema, sempre il grande Paul Watzlawick, nel suo “istruzioni per rendersi infelici” racconta questa storiella:
Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa.
Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa abbia perduto.
«Ho perso le chiavi di casa», risponde l’uomo, ed entrambi si mettono a cercarle.
Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto chiede all’uomo ubriaco se è proprio sicuro di averle perse lì.
L’altro risponde:
«No, non le ho perse qui, ma là dietro», e indica un angolo buio in fondo alla strada.
«Ma allora perché diamine le sta cercando qui?»
«Perché qui c’è più luce!»
Questa bizzarro aneddoto è conosciuto come “Il Paradosso del Lampione”.
Molto spesso tendiamo a cercare soluzioni a nuovi problemi nello stesso modo e mai “oltre la zona illuminata” rischiando di restare prigionieri dei “lampioni” che abbiamo nella nostra mente. Invece è importante andare oltre soluzioni automatiche, analizzando i problemi nel giusto modo e trovare le soluzioni adatte al problema (per tanto uniche) che non necessariamente sono da ricercarsi in quelle di cui abbiamo già avuto esperienza. In questo caso andare alla ricerca di soluzioni efficaci nel passato è fare come l’uomo che gira intorno a sé stesso intorno al palo cercando qualcosa che non c’è, quindi noi dobbiamo focalizzare la nostra attenzione nella ricerca di soluzioni efficaci.
Ma c’è qualcosa di più: le azioni che comunemente facciamo nel momento presente sono determinate la maggior parte delle volte dalle nostre proiezioni future e quindi potremmo dire che, in realtà, quello che facciamo nel momento presente scaturisce tutte le volte da quello e non ci aspettiamo nel futuro. Per capire meglio questa cosa vi sottopongo un test: cosa avete fatto ieri sera prima di andare a letto (tra le cose che si possono dire)? La maggior parte di noi, prima di andare a letto, compie l’azione di mettere la sveglia. Puntare la sveglia al giorno dopo nasce dal fatto che gli esseri umani hanno una proiezione futura. Ci possiamo quindi brevemente rendere conto che la maggior parte delle cose che facciamo nel momento presente sono determinate da quello che vogliamo o ci immaginiamo di fare nel futuro; in breve la maggior parte di quello che noi facciamo è influenzata più dal futuro che dal passato.
Guardiamo avanti anche perché siamo costruiti così: se fossimo costruiti per guardare indietro cammineremmo all’indietro, invece siamo costruiti per lavorare con le mani e guardare avanti. Quindi per trovare soluzioni efficaci è bene concentrarsi sul qui ed ora, analizzando non tanto il “perché” avete il problema ma “cosa” state facendo nel momento attuale per gestire il problema. Capire infine come funziona il problema e successivamente essere flessibili nel cambiare qualcosa di quello che state subendo è uno step fondamentale se considerate che i problemi non si risolvono pensandoli ma facendo qualcosa di diverso, evitando di rimanere fermi.

Dostoevskij e la leggenda del grande inquisitore
L’esperimento di Milgram ha messo in mostra come gli uomini accondiscendano remissivamente al sistema dell’autorità, anche quando si tratta di assumere scelte poco etiche. Quando le persone obbediscono all’autorità, arrivando persino ad attuare condotte discutibili dal punto di vista etico e morale, la domanda che sorge spontanea è “perché?”. Dostoevskij si è posto il medesimo quesito scrivendo la leggenda de “Il Grande Inquisitore”, un capolavoro della letteratura universale all’interno del romanzo “I fratelli Karamazov”.
L’azione del poema è ambientata in Spagna, a Siviglia nel XIV secolo, nel periodo più tremendo della Santa Inquisizione. Per garantire la continuità della religione unica, in gloria di Dio, ogni giorno gli eretici sono consegnati alle fiamme sulla pubblica piazza ma quella sera improvvisamente compare un uomo che sembra essere Gesù Cristo. Attratta da una curiosità irresistibile, la gente si accalca intorno, lo osanna e lui benedice tutti emanando una forza risanatrice. Un vecchio cieco implora: “Signore, guariscimi cosicché possa vederti!” e il cieco vede. Nel frattempo, sul sagrato della cattedrale di Siviglia si sta volgendo un funerale: in una piccola bara bianca giace il corpo di una ragazzina. La madre della defunta, in preda a disperazione, urla: “Se sei Tu, resuscita la mia creatura!”. La processione si ferma, Egli pronuncia piano “Talitha kumi (è un’espressione in aramaico parlato da Gesù nel Vangelo di Marco che significa: “Fanciulla, alzati) e la fanciulla si leva dalla bara. Non v’è più alcun dubbio che si tratta della venuta di Gesù Cristo. Proprio in quel momento, tra le urla e i singhiozzi della gente, un vecchio sui novant’anni, alto, dinoccolato, dagli occhi incavati, attraversa la piazza: è il Grande Inquisitore in persona. Impaurito da un suo ritorno, l’Inquisitore fa imprigionare l’uomo.
Comincia così, in una prigione buia, il monologo in cui il vecchio accusa Gesù di essere tornato sulla terra a rovinare i suoi piani e a mettere in pericolo il suo progetto di pacifica convivenza tra gli uomini. Cristo non pronuncerà neanche una parola ed è l’Inquisitore a esporre la propria visione del mondo e al contempo quella opposta, di Gesù appunto. Reo di aver fatto dono agli uomini del libero arbitrio, Gesù, avrebbe voluto far emergere negli esseri umani la facoltà di scelta, cosa che, agli occhi dell’Inquisitore, non sono in grado di esercitare. Secondo l’Inquisitore, infatti, la maggioranza della gente manca della profondità di saper scegliere la cosa giusta e per questo la loro vita necessita di essere gestita. Nell’incapacità di scegliere tra il bene e il male, gli uomini sono rassegnati ad essere condotti come un gregge, delegando ad altri le decisioni per disporre di una vita più tranquilla e in un certo senso rinunciando alla propria libertà per essere felici. Scegliere liberamente è una questione che tormenta e per questo gli uomini cercano qualcuno che lo faccia per loro e che li sottragga dall’angoscia di prendere decisioni (purché rimanga l’illusione che siano loro a scegliere da sé).
Gli argomenti centrali affrontati sono quelli che tormentano l’animo umano fin dalle origini dell’uomo: libertà, libero arbitrio e la capacità di scegliere tra bene e male. Dal monologo emerge un affresco sul genere umano assolutamente negativo: le persone sono inette, indecise, deboli, incomplete. Se per libertà s’intende la capacità di discernere tra bene e male e al contempo di prendere decisioni in maniera autonoma, allora l’uomo non è libero, perché necessita -per sua natura – di dipendere da qualcuno che faccia le sue veci.
Il rapporto è come quello che un bambino ha con la propria madre: lei lo premia se fa bene, lo punisce se sbaglia, se si comporta in maniera corretta gli fornisce protezione ma se non obbedisce, fa uso della forza. In tutta la sua nudità, come un bambino, l’uomo non è capace di gestirsi autonomamente ma ha bisogno che qualcuno lo governi. Non a caso, se posto davanti a una scelta, nell’indecisione di sapere cosa è meglio per sé, emerge puro questo limite e ciò lo rende profondamente infelice. Allora, forse, è proprio in questo che consiste la felicità: nel sottrarsi alla scelta.
La difficoltà di scelta è un tema ancora molto attuale: scegliere non è un’impresa facile e la vita nella sua complessità è sprovvista di un vademecum sempre valido per ogni circostanza. Capire quale possa essere la scelta più consona ad ogni contesto è una questione che costa fatica, può suscitare ansia, generare dubbi ed esporre ad errori di valutazione. Queste sono le ragioni per cui la maggioranza delle persone – come sostiene il Grande Inquisitore – ha bisogno di qualcuno che lo faccia per loro. La religione e alcune forme di governo in questo senso hanno dato agli uomini qualcosa in cui credere e la possibilità di vivere felici, soprattutto se c’è qualcun altro a fare scelte al posto loro. Non è un caso che se è l’autorità di una Chiesa o uno Stato a determinare l’organizzazione sociale degli altri, la gente è più contenta perché non ha bisogno di pensare alla liceità del proprio agire. La Storia è testimone di questa forma di esercizio del potere: la gente accetta la disfatta del proprio pensiero e della propria autonomia perché è più facile se sono gli altri a pensare per noi. Inoltre, andare incontro a delle scelte costa fatica e si sa che non c’è niente di più faticoso della libertà.
In tutto questo c’è un paradosso drammatico: “vogliamo liberarci dalla libertà”, “meno liberi siamo, meglio stiamo”, “più decidono gli altri, più siamo felici”. Con questo racconto, Dostoevskij non ha voluto parlarci di fede o di politica: la storia fa riflettere da una parte se abbiamo un libero arbitrio e il diritto alla capacità di scegliere; dall’altra parte, invece, fa riflettere sullo schema del potere di chi pensa che la massa non abbia gli strumenti per giudicare e per scegliere.
Il Grande Inquisitore rappresenta ancora oggi una metafora della modernità, anche se non corrisponde più a un essere identificabile con una persona. Con la globalizzazione, dove i confini si sono fatti più labili e spersonalizzanti, i cittadini si sono trasformati in semplici consumatori. Il Grande Inquisitore, quindi, si nasconde dietro il concetto di mercato e di mass media che influenzano enormemente le nostre scelte e con esse anche i nostri stili di vita. È il Grande Inquisitore moderno a stabilire cosa comprare, dove andare in vacanza o cosa indossare, e ciò che ne consegue è l’emarginazione di chi non si adegua a queste prescrizioni indirette. Ma l’uomo non vuole sentirsi escluso, ama essere un tutt’uno e in questo somiglia molto al consumatore che, al supermercato, per la paura di scegliere, si lascia guidare dalla moltitudine così come un gregge è condotto dal pastore.
I media sono abili strumenti finalizzati al formare un pensiero superficiale e poco riflessivo, dove la banalità dei luoghi comuni è costantemente veicolata alla massa attraverso la divinizzazione di oggetti e modelli di culto futili e sterili che impediscono ai cittadini di sviluppare un loro senso critico. Allo stesso modo agisce la tecnologia. Siamo portati a pensare che essere connessi in rete ci abbia reso in qualche misura la vita più facile ma la tecnologia serve all’uomo per vivere, non lo rende libero. La tendenza all’essere sempre connessi influenza enormemente i nostri comportamenti. Siamo soggiogati a una dinamica persuasiva, nel senso che il mondo virtuale è in grado di influenzare, se non addirittura determinare, idee e comportamenti così da penetrare nella vita degli individui, nelle loro relazioni, nel mondo. Questa connessione globale dà l’apparenza di esercitare più facilmente il nostro libero arbitrio all’interno di una bolla virtuale che somiglia molto all’illusione che il Grande Inquisitore vendeva agli uomini. Ciò va a sostituirsi alla vita reale e alle diverse versioni sul mondo.
Tutt’altra faccenda è la libertà che non è facile esercitare: essa necessita di una conoscenza che va costantemente conquistata e impone la difficoltà del sapersi orientare nel mondo con la propria testa. Dietro a chi vuole essere consapevole di sé, si nasconde una grande educazione alla conoscenza, che dà l’autonomia intellettuale necessaria per far fronte a scelte autonome. I mezzi di comunicazione di massa oggi più che mai fanno da vicario ed hanno cambiato il comportamento degli esseri umani, che ancora una volta sono invitati a scegliere la strada più facile e più lontana dall’autoaffermazione per risollevarsi dalla loro condizione esistenziale, senza sapere che tutto ciò è solo una chimera.
E poiché è difficile sopportare la dura realtà della propria esistenza, pochi resistono alla fatica della conoscenza e si asservono alle leggi del Grande Inquisitore.
In copertina: Ilja Repin, Le tentazioni di Cristo, 1900 ca.

L’esecrazione del grasso
Essere grassi è, in un certo senso, come essere ammalati oppure vecchi: in parole povere tagliati fuori. Non puoi rendertene conto finchè, grasso, non lo diventi davvero. E forse, visti gli innumerevoli lockdown, più di qualcuno ha sviluppato, per solidarietà, un po’ più di empatia verso questi corpi non allineati. Meno di due secoli fa eravamo circondati da girovita traboccanti, Veneri più larghe che alte, puttini rubicondi, santi piuttosto in carne: tutto svanito. Le immagini di cui ci circondiamo, le icone del desiderabile, sono uomini e donne con corpi sodi, addomi scolpiti e percentuali di massa grassa ridotta al minimo. Insomma, il corpo oggi attraverso il peso si è trasformato in un attributo morale che genera disagio e vergogna.
Le più recenti ricerche, ci confermano che nel mondo moderno, si desidera essere più magri, più “in forma”. I risultati affermano che si è anche attratti da potenziali partner “normopeso”, quelli che, in epoca vittoriana, non avrebbero fatto faville e che a Napoli sarebbero considerati “senza sostanza”. Sarà anche per questo che oggi si aspira ad avere un corpo tonico e in forma per non essere considerati “merce scaduta” e “fuori mercato”, perché essere grassi oggi è divenuto una vera e propria fonte di vergogna e di imbarazzo. Chi è grasso, o anche solo sovrappeso, porta uno stigma difficile da evitare e da sopportare che tentiamo il più possibile di eliminare attraverso un’attività fisica al limite dell’ossessione e attenzione all’alimentazione.
Ciò apre il varco di quel diffuso sentore emotivo dell’incapacità di stare a dieta, sentirsi guardiani del proprio girovita e decidere il tutto per tutto per modificare quell’immagine corporea intrisa di significati sociali che ci squalificano fino all’indesiderabile. Si entra in un gioco di specchi deformanti dove non si sa se la responsabilità della propria percezione siano gli occhi con cui siamo noi a guardarci o ci guardano gli altri – inconsapevoli essere la stessa cosa.
Ma lo sdegno per le persone grasse, non si esaurisce qui e non si può certo spiegare solo con l’ossessione per la salute. Ha piuttosto a che fare con il significato attribuito al grasso che si è trasformato in attributo morale dell’uniformarsi a quest’unico valore estetico-esistenziale. Essere grassi infatti non è solamente solo un fatto estetico (oltre medico se portato all’estremo di cui non ci occuperemo in questa sede). Appare agli altri come indicatore di un “difetto di costituzione” ma soprattutto di una vita mal spesa nell’accidia e nella cupidigia. Ciò autorizzerebbe gli esenti a far prediche di ogni tipo, facendo annegare nella più vergognosa colpa il mal capitato sotto tiro.
La moralizzazione dell’essere grassi (tralasciando l’ipocrisia delle modelle curvy, false grasse dalla taglia 42 con un abbondante décolleté) è peggiorata con la dittatura della salute a tutti i costi, dove per essere socialmente attraenti è fondamentale avere uno stile di vita “healty”: pochi grassi, pochi zuccheri e tanta attività fisica per corpi tonici e snelli, l’emblema della desiderabilità sociale. Una visione che viene sostenuta e aggravata anche dal salutismo alimentare imperante, dal culto crescente verso il cibo bio, veg, privo di qualsiasi sostanza industriale nociva. Una concezione che tende ancor di più, appunto, a giudicare chi, nonostante il cibo “benefico” in circolazione, si ostini a mangiare “male” e di riflesso, sia colpevolmente fuori forma. Una “forma “stabilita da chi? E chi definisce chi è “fuori”?
Non accettare un corpo diverso è il rifiuto della realtà, del mondo, è orrore della vita e dei suoi limiti. E’ l’illusione di sopravvivere alla vita rinunciando a viverla perché ci si sottrae e essere se stessi per volontà di essere gli altri. E’ il rifiuto della varietà rifuggita in una surreale esistenza asettica che rincorre il mito dell’uguaglianza. Fuori dall’età che avanza e fuori dai canoni del corpo, equivale essere fuori dal mondo. L’odore di essere troppo umani -con tutti i suoi limiti, puzza di volgarità e primitivo- accezione non conforme a quest’epoca di “moderna bellezza”. E’ una condizione mentale, questa, diffusa tra chi, pensando di migliorarsi, vuol modificare la sua vita e allontanarsi dalla finitezza, da se stesso. Come? Chirurgie, pillole e lifting, diete e radicali modifiche del proprio look, perchè chi soffre la propria identità, si sottrae al carcere del proprio corpo.
Ecco che allora le tecnologie della salute e della bellezza crescono a dismisura insieme alle palestre di fitness come opportunità per plasmare il corpo sull’onda della moda del momento. Il corpo diventa un progetto: un oggetto che può essere trasformato e le imperfezioni eliminate rivolgendosi al chirurgo nel disperato tentativo di esercitare sugli altri un’attenzione e un’accettazione di cui siamo dipendenti. “Sarò come tu mi vuoi” è il nuovo imperativo etico prima che estetico, un traguardo doveroso da raggiungere che fa sentire alla moda, belli come divi, tonici come body builder, a garanzia di una sicurezza sociale da esibire in pubblico senza timidezze.
Grazie al business delle diete, esercizi ginnici, massaggi, e interventi mirati di chirurgia estetica, non modificare il proprio corpo secondo i modelli vigenti diventa una colpa. Il “grasso” e il “fuori moda” sono i nuovi nemici da combattere per non incontrare la disapprovazione sociale. Paradossalmente riconoscere di essersi fatti un “ritocchino”, rimodellato e rassodato alcune parti del corpo e frequentare con costanza le palestre per combattere i chili di troppo sono argomentazioni sostenute dall’“aver fatto il proprio dovere” per essere accettati – ergo avere successo.
Ma ora siamo giunti a conclusione e so che mi chiedete un po’ di ottimismo, una pausa rincuorante dai toni inquisitori di quell’infelice equazione che livella il “Grasso” al “Brutto” inteso come contrapposizione al “Bello”. Un Bello inteso come ripetizione e riproduzione seriale ma soprattutto inteso come omologazione, monotonia, uniformità. La vera bellezza invece prospera nella specificità, nell’irripetibilità, nella varietà delle forme. L’uniforme invece è ripetizione infinita, catena di montaggio, primato della noia. Se le cose stanno così, pensate a quanta fortuna si possiede ad “essere brutti” con tutte le sue fantasiose declinazioni.