

Un eroe demerito. Un uomo comune
La rappresentazione dei miti nelle varie epoche e culture ci ricorda che dobbiamo fare i conti con una “cosa” che si chiama inconscio universale. In ogni società compare la figura dell’eroe: un mito che esprime la tendenza a lottare per il bene comune, che può elevarsi ad esempio utile per tutta la collettività. Achille per esempio, il più forte dei guerrieri Greci, stava davanti a un bivio: o la lunga vita a cui gli uomini aspirano o la non fama dell’eroe spezzato dalla morte precoce. Achille però, mosso dai suoi principi interiori non scelse la gloria e aderì al proprio destino. Difficilmente oggi un suo contemporaneo avrebbe rifiutato l’immortalità e la gloria eterna. Ma anche in tempi meno recenti condottieri e uomini di potere, non facendo i conti con i propri limiti (che il mito deposita nell’inconscio collettivo) sono caduti nell’autocompiacimento o nella sopravvalutazione della propria persona e delle proprie forze. Ed è così che alcuni uomini avvicinandosi troppo al fuoco, non avendo interiorizzato il principio del limite – hanno trascinato se stessi e i loro eserciti in qualche catastrofe.
La psicanalisi dal canto suo ci dice che solo una continua autocritica può impedirci di cadere nella feroce ambizione che attanaglia gli uomini, diversamente si incorre in quella che Freud chiamava “pulsione di morte”: “quell’autocompiacimento che si rifugia in ogni calcolo di convenienza”. Ed è così che non riuscendo a frenare l’ambizione, pur di avere successo, alcuni uomini, vendono l’anima al diavolo. Ma una simile svendita seduce anche l’uomo contemporaneo. Purtroppo i miti di oggi non sono i protagonisti dei racconti del mondo antico, greco o classico. I“miti” della nostra epoca sopravvivono in forma di idoli, di feticci, riferimenti pericolosi serviti quotidianamente da social e media.
Sono finiti i tempi dell’eroe che vinceva in battaglia l’esercito nemico, oggi la notorietà è a portata di tutti: basta assemblare qualche diavoleria tecnologica e iscriversi ai più influenti social network. Stiamo parlando di miti contraffatti, falsi miti di cui siamo ostaggi. Mai come oggi la notorietà è a portata di mano. Siamo esposti tutti a una fama illusoria che genera solo anonimato e solitudine. È un successo farlocco, auto autoreferenziale, una notorietà che nasconde fragilità, incapacità di stare nel mondo reale: tutti elementi suscettibili alla peggior psicopatologia. Non è un caso se, sedotti dalla promessa di notorietà dei social, il numero di giovani in stato di sofferenza sia in crescente aumento. Essi si offrono all’altare della visibilità a tutti i costi scoprendo – oppure no- di essere dentro un non luogo spersonalizzante che frantuma la mente originale fino all’ultima briciola di ragione e senso critico.
E un’epoca senza miti veri è una vita senza veri ideali, senza sogni. Perché alle origini della storia dell’uomo c’è un racconto, una narrazione incredibile e una fiorente mitologia, sia essa in forma di parabola, storiella o prodigio. Senza il riferimento dei miti siamo persi, spaesati, liquidi come direbbe Bauman. Forse dovremmo riconquistare le origini, le fondamenta. La modernità volendo dare ad ogni sapere uno statuto scientifico ha offuscato la predisposizione inconscia del pensiero. Insomma, viviamo un mondo iper-razionale, matematizzato e tecnico, dove il mito viene liquidato senza tanti complimenti . Eppure l’uomo ha un bisogno naturale di soprannaturale, di un mondo ulteriore, della possibilità di vedere il mondo con altri occhi . Perché il mito è una dimensione essenziale, esistenziale, costitutiva della nostra vita e della nostra mente. In fondo tutti noi abbiamo biologicamente una vita piccola, ma se estendiamo la sua durata all’anima avremo una vita infinita. Ed è all’anima che il mito parla e da cui abbiamo bisogno di essere parlati.

La Paura Di Essere Diversi
Spesso mi cimento in un esperimento: mi siedo su una panchina ed osservo la gente che passa. Quello che vedo è sempre la stessa scena: mille piedi e nessuna faccia. Ma straordinariamente le scarpe sono tutte uguali. Scarpe da ginnastica dello stesso modello, pure dello stesso colore, come se fossero andati tutti negli stessi negozi. La panchina diventa luogo d’osservazione di queste piazze ormai divenute centrali commerciali. È incredibile come spinti dal vento dei social ci siamo ridotti a uniformare i nostri gusti, ad appiattire le nostre sensibilità e non per ultimo omologare le identità annullando quel timbro di originalità che ciascuno di noi si porta dentro. Cosa è successo? Abbiamo perso le radici, siamo tutti fragili come piantine esposte alle tempeste e alle tante e troppe libertà conquistate in nome dell’individuo che hanno portato alla massificazione generale.
Iniziamo la nostra vita partendo tutti diversi per poi ritrovarci simili come gocce d’acqua, codici seriali senza un accento personale. ..Nel vestire, nel mangiare, nel pensare e quindi nel parlare. E non credo ci sia qualcosa di più drammatico. L’uso del linguaggio è ormai figlio del pensiero dominante e colossi come Amazon, Facebook e Google hanno confezionato un mondo con i loro prodotti, loro linguaggi, i loro riti, le loro notizie -magari anche false- che spingono alla modificazione della struttura del pensiero (per chi ne ha uno). Compriamo ciò che ci suggerisce Amazon, ragioniamo come Google e crediamo che la verità sia quella scritta sulla bacheca di Facebook. La famiglia che prima era il nostro centro nucleare di appartenenza, ora viene tolta come un cerotto logoro e la scuola oggi, che una volta era tra le migliori al mondo – struttura il sapere in tante piccole prove a fin di voto andando a parcellizzare quel che prima era un esame unico che permetteva di fissare concetti per tutta la vita.
Non si tratta di essere pessimisti o di coltivare una nostalgia fuori dal tempo ma di comprendere le tendenze di questa modernità non rassicurante. C’è una marcatura paradossale ad essere soggetti (che finiscono per diventare oggetti) rischiando così di fare gli stessi discorsi, leggere gli stessi libri, comprare le stesse cose… E c’è un’unica via d’uscita da tutto questo. È un’attrezzatura composta da formazione, cultura e sapere come antidoto alla paura, allo stereotipo e all’omologazione. Ma voglio lasciarvi anche un briciolo di ottimismo. Tra tante persone che si somigliano sotto la bandiera dell’uniformità, ci sono anche minoranze organizzate che non si arrendono. E nemmeno io mi arrendo a sedermi sulle panchine a cercare volti in mezzo a un vorticoso andirivieni di scarpe tutte uguali.
Nel libro sotto troverai approfondimenti in merito.

La storia del pianista depresso riabilitato con l’ipnosi
È possibile per un pianista aprire la mano sino ad un’ampiezza di 12 tasti? La risposta è no, a meno che tu sia Sergej Rachmaninov. Anche per questa sua caratteristica unica (era un gigante di 1.96 mt che aveva due rastrelli al posto delle mani), Rachmaninov è indubbiamente da considerarsi uno dei migliori pianisti della storia. In veste di compositore ha architettato componimenti così difficili da essere proibitivi a pianisti con mani regolari poiché li limitavano nell’estensione richiesta. Il musicista di fama mondiale viene considerato come uno dei più grandi artisti russi di sempre, tuttavia l’esecuzione della sua prima Sinfonia, tenutesi a San Pietroburgo nel 1896 fu un vero fiasco – forse anche a causa della pessima direzione d’orchestra da parte di un Maestro che si narra fosse ubriaco mentre dirigeva.
L’insuccesso lo demoralizzò così tanto al punto di abbandonare la composizione per svariati anni poichè si diceva “ bloccato” e sentiva inaridirsi la sua vena creativa. Intanto il tempo passa e Rachmaninov, assai provato da quel primo insuccesso vede comunque crescere la sua notorietà internazionale come esecutore. Fu così che il pianista decide di lavorare duramente per quella che doveva essere la sua seconda grande possibilità di artista che l’avrebbe riabilitato anche come compositore. Ma proprio questo suo imperativo, accompagnato da ansia da prestazione, fece sì che Rachmaninov cadde in preda di un grave stato di apatia.
Teniamo presente che siamo a fine ‘800, la psicoterapia non è come la conosciamo oggi: Freud aveva appena cominciato “L’interpretazione dei sogni” e la stragrande maggioranza degli ipnotisti erano impostori. Poi un giorno si ritrova quasi per caso a suonare a casa di amici dove c’era anche Lev Tolsoj che gli propose una terapia basata sull’ipnosi presso il dottor Nikolaj Dahl: un medico e psicologo russo noto soprattutto come esperto ipnotista. Dahl era anche un violoncellista esperto non professionista e questo lo vantaggiò molto nel progettare un trattamento ipnotico ad hoc. Il percorso durò 4 mesi: da gennaio all’aprile del 1900 – strutturato in incontri pressoché quotidiani fino a quando Rachmaninov ritrova la verve compositiva e la fiducia persa. Dal quel momento nuove idee musicali – che avevano qualcosa di miracoloso cominciarono a muoversi dentro di lui. Ritrovata la fiducia in se stesso Rachmaninov compone il concerto per pianoforte e orchestra numero 2 che viene eseguito per la prima volta il 15 settembre del 1900 a Mosca. Il successo fu straordinario e come segno di gratitudine il musicista dedicò la composizione proprio al suo ipnotista.
L’ipnosi può sicuramente aiutare la creatività, e l’esempio di Rachmaninov rappresenta un caso storico notevole di impiego della suggestione ipnotica come supporto per fini creativi che si è dipanato tra il 1899 e il 1900. L’ipnosi può aiutare a migliorarsi, a superare dei momenti di stallo ma soprattutto come prima cosa ad attingere alle nostre più profonde risorse interiori. ….Ma badate bene, che non pensiate che l’ipnosi vi faccia suonare come Rachmaninov!
Qui sotto il Piano concerto no.2, un capolavoro senza tempo. Ascoltare per credere.

Abbiamo bisogno di Maestri, non Influencer!
Abbiamo bisogno di Maestri oggi quando abbiamo a disposizione opinionisti, influencer, blogger, counselor e coach di ogni tipo? Questi personaggi sono sponsor pronti a guidarci negli acquisti nell’ottica di dare una direzione al nostro modo di vivere e pensare dandoci l’illusione di trovare la tanto agognata felicità. Del resto l’era dei social offre a ciascun la possibilità di un selfie per eleggersi a maestri di se stessi in una forma di auto acclamazione. Basta fare un giro nella rete per cogliere qua e là slogan e citazioni come a volersi elevare a maestri di vita.
Sembra dispersa oggi la figura del Maestro, eppure un tempo esisteva una riferimento in carne ed ossa – decisamente fuori moda dal momento che la maggior parte delle relazioni, persino quelle legate all’educazione e all’istruzione si svolge sempre più davanti ad uno schermo. Questa figura – ormai mitologica- del Maestro è uno di quei riferimenti che ci fa da guida, docente, precettore, esperto da dove ancora la vera sapienza si può attingere anche da una prossimità fisica, reale.
Un maestro è un po’ come il capitano di una nave, una guida alpina, colui che ha l’autorità e la capacità di indicarci una via… E ce la indica dall’alto perché egli possiede qualcosa in più. Egli possiede la conoscenza, la competenza, l’esperienza e anche l’autorità che è ben diverso dall’ essere dei despoti. Non sono da considerarsi maestri infatti, i profeti, coloro che salgono in cattedra per persuadere, perché un maestro non è il capo, non indottrina, anzi, è particolarmente attento alla pluralità dei punti di vista. La relazione docente-discente non è mai un luogo di oppressione ma di liberazione. È una libertà che si può indurre solo se si insegna in maniera proficua e appassionata, suggerendo la via del bene pubblico e privato – Se non altro allontanando dalla via della perdizione del non sapere chi si è. Il maestro insegna a pensare, non cosa pensare. Ci aiuta a comprendere con spirito critico e quindi a giudicare e a prendere delle decisioni in maniera autonoma.
Invece oggi che ci resta? Sono finiti i tempi dei riferimenti che forgiano le intelligenze dei futuri cittadini. A maggior ragione se si vorrà togliere lo studio del greco ed il latino dalle scuole e perchè no, anche storia dell’arte – che in questi tempi di consumo torna poco utile. Che dire allora? Meglio un corso di laurea triennale in influencer?
Io credo che proprio in un momento di spaesamento, di solitudine nella moltitudine, di mancanza di significati profondi come questo che si accusa forte l’assenza di modelli che stimolino il pensiero. E’ un pensiero che a differenza di quello suggerito da sedicenti guru alla moda non impone verità, tuttalpiù ci invoglia a cercarla.
Se ti è piaciuto l’articolo forse può piacerti anche questo libro!

La Comprensione è un’Utopia…Come la Psichiatria
È possibile attribuire allo psichico le stesse proprietà dell’organismo, vale a dire la possibilità di ammalarsi, di diagnosticarne la malattia e spiegarne le cause? In altre parole è possibile applicare gli stessi procedimenti della medicina biologica ai comportamenti umani e ai correlati processi mentali? Da quel che mi risulta non si è ancora trovato oggi un modello biologico della malattia mentale. Quali sono allora le cure per tutte quelle persone che pagano pesanti sofferenze psicologiche alla lotta per l’esistenza senza una scienza fondata che si propone di aiutarle?
Guardando alla Storia, alla fine dell’800 la ricerca di un substrato biologico della malattia mentale si era ricercato nella conseguenza di un’infezione batterica. Ne derivò l’idea che si dovesse aggredire il cervello come forma di cura e la conseguenza fu la diffusione di terapie come l’insulino-terapia o l’elettroshock per arrivare al tragico traguardo della lobotomia. Dietro queste cure disperate c’era la pericolosa illusione di aver trovato le sedi o le cause dei disturbi psichiatrici. Più tardi in un nuovo clima morale esasperato dalle ideologie eugenetiche arrivarono gli psicofarmaci considerati dagli psichiatri riluttanti “il manicomio chimico”. In questo clima di insofferenza verso l’insolito, la tesi di fondo era questa: nella vita naturale prevalgono i soggetti estremamente adattati all’ambiente e i soggetti più forti. I più deboli, secondo questa concezione cadono in qualche modo distrutti nella terribile lotta per la vita che, come dice Darwin “mette fuori gioco chiunque sia fragile, chiunque sia sensibile”.
Questa nuova ecologia umanitaria si è ben presto tradotta in una gestione politica della questione psicologica e il DSM ne è la cosificazione. Fu così che si cominciò a stabilire culturalmente cosa è giusto, cos’è sbagliato, cosa è morale, cosa immorale, cosa è scientifico e cosa non lo è, mettendolo i comportamenti umani ai voti (è in questo modo che l’omosessualità fu spodestata dal DSM come disturbo mentale). E siccome si sa, che chi cerca trova, tali incompiutezze metodologiche e scientifiche (dovute anche alla complessità del cervello) hanno portato a presupporre l’esistenza di un modello biologico sottostante una presunta malattia mentale consentendo ai cosiddetti terapeuti di millantare un accesso alla mente malata usando teorie pratiche pseudoscientifiche.
Ma facciamo fare ancora un ultimo sforzo alla ragione. Se in medicina il referente empirico appartiene al corpo, ovvero il corpo è il supporto e al contempo la sede di verifica d’ipotesi diagnostiche, la psichiatria individua il proprio referente empirico nella mente e nel comportamento. Appare evidente che ora si è proceduto a localizzare il supporto anatomico della cosiddetta malattia mentale nella mente. Ma cos’è la mente? E soprattutto dove si troverebbe? Non va sottovalutato che non v’è nulla di più astratto e non situato della mente, pertanto la mente resta tuttora una metafora – anche se di notevole potenza.
Una riflessione in questo senso sull’epistemologia (non è una parolaccia) della psichiatria può sembrare pesante, sgradita; Eppure, è proprio la discussione intorno all’ereditarietà delle malattie mentali, alle incomprensibilità e l’”inguaribilità” della follia umana ad aver alimentato e sostenuto l’azione che ha portato alla chiusura dei manicomi. In essa hanno avuto grande peso le culture scientifiche e professionali che si rifanno alla psichiatria fenomenologica e alle psicoterapie di matrice costruttivista.
C’è da interrogarsi se ciò che va sotto il nome di sintomo sia o meno il risultato di una “mente malata” o un modo particolare – seppur disfunzionale e soggettivo di cercare una soluzione e un adattamento – anche se precari. Con questo non voglio alludere che sia meglio non fare psichiatria. Si può approcciare alla cosiddetta “malattia mentale” come una diversa modalità di essere nel mondo, di esperienze interiori e vissuti degli individui, mai sradicandoli dal tessuto esistenziale. E’ la descrizione di una psichiatria (e una psicologia) intesa come incontro col paziente. È un interesse verso l’Altro che azzarda il tentativo disperato, forse illusorio (?) e talvolta fallimentare, di intuire e di capire cosa c’è, che cosa si muove in quelli che sono gli abissi di un animo umano.

Quando Amore fa rima con Dolore
Si c’est fichu entre nous, la vie continue malgrè tout: se è finita tra di noi la vita continua nonostante tutto, così cantava una vecchia canzone francese. Può capitare che un amore finisca se è iniziato; spesso trascinando con sè malinconiche macerie. Il problema è come ricominciare una vita, pur non rinunciando a quella già vissuta in due, quando ricominciare significa anche ritrovare in altri un riflesso splendente di se stessi dimenticato in un passato non ancora remoto ma ormai troppo lontano. Quella sull’amore è una storia intima ma universale che racconta la disponibilità verso l’altro. E’ attraverso questa disponibilità, fatta al contempo di straniamento e scoperta, che il mondo si rinnova anche agli occhi di chi si sente finalmente amato. Ma ahinoi, amore rima con dolore, rivela la nostra innegabile fragilità, ci si perde prima dentro e poi fuori di un altro, dalla cui disponibilità dipende la nostra stessa esistenza e forse il nostro stesso senso. Essere, sentirsi amati è un riconoscimento di noi stessi tenuti in ostaggio dall’altro che quando pronuncia parole come “non ti amo più”, trafigge con lame sottilissime la ragione della propria esistenza.
Eppure, il trauma che comporta amore-dolore è solo I’inizio di un processo di conoscenza, un’indagine sul nostro essere nel mondo. Più volte ho sostenuto che amore e conoscenza sono sinonimi: vale anche per l’amore negato, poichè getta il suo sguardo sulla nostra vulnerabilità di uomini soli. E’ parimente un’esperienza che lacera la coscienza, schiaccia l’uomo privandolo di ogni prospettiva, indice il più delle volte del fallimento della parola e del pensiero e al loro posto si sostituiscono il pianto, il lamento e molto spesso il silenzio. “Date le parole al dolore, la sofferenza interiore che non parla sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza”. Le parole del Macbeth Shakespeariano, a maggior ragione sottolineano la forza devastante che può accompagnare l’esperienza del dolore ma al contempo indicano anche la strada per non soccombere di fronte a questo predatore della gioia di vivere. E’ difficile come chiede Macbeth, dare al dolore parole che valgano per tutti e per tutte le spiacevoli esperienze amorose e non che si presentano. Che le parole possono spezzare un cuore, è vero, ma talvolta possono aprire varchi nuovi e imprevedibili nella vita di ciascuno.
A tutti sarà capitato infatti, di sentirsi diversi, quasi trasfigurati dopo la tempesta di una sofferenza personale. Il dolore non è quindi, solo un mostro che schiaccia ed avvilisce. E se l’esperienza del dolore proprio o altrui costituisce il più delle volte il fallimento della parola e del pensiero, a maggior ragione il contesto di cura deve essere un contenitore disponibile al dialogo, all’ascolto e alla ridefinizione di storie che esortano a cambiarne il finale o a scriverne altre. Eb-bene, perdere l’amore è perdersi, è dolore autentico ma presenta la sua contropartita. Come sostengono i più grandi scrittori il dolore sa essere anche maestro di vita, un educatore capace di renderci sapienti e farci ritrovare. Gli antichi addirittura sostenevano che la sofferenza è forse l’unico mezzo valido per rompere il sonno della ragione. Ma badate bene, deve essere un dolore vero, che trafigge, vissuto negli abissi del profondo, non rigettato, addomesticato o narcotizzato. Quando un dolore autentico vi pervade mente e cuore, guardatelo in faccia, meditatelo, elaboratelo, solo allora potrà essere accolto nella vostra anima e rendervi migliori.

Essere o non essere? Questo è il è il problema!
“Essere o non essere”? È forse questa la fase più famosa dell’Amleto di Shakespeare pronunciata proprio da Amleto nella prima scena del terzo atto. Si tratta di un interrogativo esistenziale del vivere soffrendo (essere) o del ribellarsi rischiando di morire (non essere).
In questo dilemma ci si interroga se sia più nobile psicologicamente soffrire gli affanni della vita o porvi rimedio annulandosi, ponendo fine, così, al dolore del cuore. In fondo chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, i calci in faccia, le oppressioni del quotidiano, gli spasmi dell’amore, l’insolenza di questi tempi bui? Sono fardelli che rendono la vita spesso troppo faticosa per ribellarsi alle sue leggi.
Il dubbio amletico è tra i più attuali del nostro tempo: E’ forse più nobile affrontare la traversata nel mare della vita combattendo o sopportando la sorte stoicamente arrivando fino al nichilismo? Qual è la vera nobilità?
Da abitante di questo mondo mi ci sono interrogata più volte io stessa e anche i miei pazienti. Una volta lo chiesi a una persona di cui ho smisurata stima e ammirazione che di tutto punto me lo spiegò con un frase di Enzo Jannacci che, in un ‘intervista, quando gli chiesero che cosa fosse per lui la dignità di un uomo, da medico, prima che da celebre cantautore, rispose: “La dignità è la capacità di far fronte ai propri problemi”. Ma siamo sicuri che tutti scelgano di percorrere questa strada?
Il fenomeno hikikomori per esempio, è una spia di come, sempre più persone, ragazzini e non più ragazzini, scelgano di anestetizzarsi dal peso del vivere nel mondo zombico dei vivi. Sono “esseri” umani che per restare umani rinunciano all’ “essere”. Esseri senza essere, dunque, che non inseguono se stessi ne perseguono il precetto socratico del “conosci te stesso”. Al contrario, quel se stesso iniziano via via a cancellarlo, scelgono la via della disintegrazione che contagia tutto ciò che li circondano in un distaccato rifiuto delle emozioni.
Forse inabili a sostenere il grande peso di essere qualcuno, rinunciano all’imperativo etico moderno dell’essere. È la cronaca contemporanea del ritiro in se stessi di fronte agli orrori di un mondo che non ammette sbavature identitarie. È la metafora di una post-modernità sempre più interconnessa ma pericolosamente spersonalizzante che pesa sulle spalle di tutti. Eppure qualcuno non ce la fa, e di fronte alle grandi scelti morali preferisce annichilirsi piuttosto che lasciarsi imporre nelle scelte altrui che non condivide. Si tratta di un ritirarsi che è un lasciarsi andare svuotati, bombardati da modelli di eccellenza in cui la maggior parte di noi, miserabili umani, non rientriamo.
Ed è così che alcuni, in questo baratro esistenziale, scelgono di vivere una vita nascosta, come a proteggersi da una tempesta di ghiaccio silenziosa che parte dalla negazione di se stessi come strumento potentissimo di autoaffermazione. Sono scelte forti, estreme, capibili solo se ci si mette nelle scarpe dell’altro ma dalle mie comodissime Birkenstock io vi dico che non posso che pensarla come il grande Jannacci: il coraggio di risolvere i propri problemi è la misura dalla propria dignità.

Alan Turing: il matematico che voleva essere Biancaneve
La mattina del 1944, 75 anni fa, L’Europa veniva liberata dal nazismo. Ciò è stato possibile perché gli inglesi furono in grado di comporre messaggi cifrati falsi usando i codici segreti tedeschi. Ma la storia inizia in un giorno afoso del 1939 a Londra, quando Winston Churchill capisce che la guerra contro la Germania è ormai imminente. In gran segreto, si decide di mettere in piedi un controspionaggio per cercare di intercettare le comunicazioni nemiche. I tedeschi abitualmente comunicavano con due codici indecifrabili: Enigma e Lorenz. Questo sistema di crittografia aveva tre dischi rotanti con le lettere dell’alfabeto e una tastiera da dattilografia; ogni lettera digitata era sostituita con un’altra. Un giovanissimo Alan Turing, all’epoca ventottenne, viene nominato capo dei ricercatori impegnati nella decrittazione dei codici tedeschi. Turing, effettivamente, può essere considerato il padre della moderna informatica dei computer, senza il suo genio oggi nessuno avrebbe in mano un iPhone e Steve Jobs sarebbe un perfetto sconosciuto.
Ciò che però maggiormente colpisce – anche se rimane sullo sfondo – é la sua vita, per certi versi tragica almeno quanto quella di altri illustri logici-matematici: per esempio Godel, Nash ma anche lo stesso Wittgenstein (di cui scriverò più avanti). Turing era gay e della sua omosessualità si seppe in un tribunale quando fu arrestato. All’epoca in Inghilterra, che combatteva per la libertà dell’Occidente, l’omosessualità era un reato, anche tra adulti consenzienti. Se qualcuno sapeva che due persone avevano avuto un rapporto omossessuale, queste venivano arrestate e condannate. Turing era un grande matematico e un grande logico, tuttavia fece un errore tremendo. Avendo una vita privata un po’ simile a quella di Pasolini; una sera rimorchiò un ragazzo e la mattina al suo risveglio si accorse che a casa mancava il ragazzo e assieme a lui parte dei soprammobili.
Qui Turing fece il più grande errore di calcolo della sua vita; andrò alla polizia locale a denunciare il furto e quando gli chiesero se avesse un’idea di chi potesse essere il ladro, lui rivelò l’accaduto della sera precedente. Fu così che venne arrestato e poi processato, ma quando si arrivò al momento della condanna, qualcuno si accorse che quell’uomo era in realtà uno dei salvatori dell’Inghilterra che qualche anno prima aveva permesso di decifrare i codici nazisti. Come medaglia al valore gli fu fatta un’offerta, vale a dire la scelta tra la detenzione per scontare il suo reato o la cura dell’omosessualità. Un’idea sicuramente balzana oggigiorno ma all’epoca gli inglesi credevano che l’omosessualità maschile si curasse mediante ormoni femminili (un modo più fine di intendere la castrazione chimica). Il noto matematico, refrattario alla galera, decise di optare per l’opzione alternativa. Fu una scelta tragica. Turing perse la barba, i peli, e parallelamente la sua identità. Gli spuntarono i seni e cominiciò a prendere via via fattezze femminili: una trasformazione che gli fece scegliere di chiudere i conti la vita.
Come molti geni era un po’ infantile e bizzarro, adorava la storia di Biancaneve, era solito canticchiare il ritornello della canzone di Biancaneve: “Vorrei un amore tutto per me…” e fu così che scelse di togliersi la vita, come la protagonista della sua fiaba preferita. Turing iniettò un mix di cianuro e potassio in una mela e morso dopo morso fu trovato morto, compostamente disteso sul letto, dalla sua governante. (È da questa vicenda che Steve Jobs trae il simbolo per la sua celebre azienda “Apple”).
Della persona di Turing ne emerge il ritratto di un ragazzo assetato di conoscenza e di amore, un personaggio, decisamente fuori dagli schemi la cui vicenda individuale drammatica diventa il paradigma di un’epoca: l’Inghilterra degli anni ’50 in cui l’altra faccia dell’impero mondiale è costruita sulla violenza e l’intolleranza di ogni diversità. A volte i conti e la logica non tornano. Almeno nella vita.

La psichiatria gentile di un uomo per bene
La prima volta che vidi di persona Eugenio Borgna fu a un congresso organizzato dalla mia Scuola di Specializzazione. Avevo poco meno di tren’anni io e poco più di ottanta lui. Un uomo dallo sguardo mite, che scansionava lo scorrere del tempo con movimenti lenti e sofisticati. In breve, un uomo dallo stile e dal compito altissimi che si interroga da quasi 70 anni sulla psichiatria di ieri, di oggi e del futuro.
La follia per l’emerito psichiatra è un racconto permeato di nostalgia che ripercorre tutti gli anni in cui si è speso per capire il mistero della malattia mentale. Un racconto che comincia dal manicomio femminile di Novara, che Borgna diresse fino al 1978 (anno della “rivoluzione basagliana”) riscontrando livelli di intollerabile inumanità, violenza e indifferenza. Dopo la chiusura del manicomio, Borgna diventa primario di psichiatria dell’Ospedale Maggiore della Carità, sempre a Novara, dove lavorò fino al 2002.
Tutti anni dedicati alla comprensione dell’incomprensibile, all’ascolto – spesso silenzioso e più fisico, portato avanti dall’attitudine umana delicata che solo un animo incontaminato come il suo può. Quella di Borgna è una psichiatria gentile che si appoggia alla sapienza farmaco-terapica, senza tralasciare l’importanza della psicoterapia. Una psichiatria orgogliosamente opposta a ogni forma di contenzione, contraria alle scorciatoie farmacologiche, sempre rispettosa dei tempi personali: variabile di cui hanno più bisogno i pazienti ricoverati. È il ritratto di una psichiatria fatta di gentilezza, speranze e fragilità comuni alla condizione umana.
Ma a fare la differenza è soprattutto la persona di Borgna stesso che sin dagli anni in cui la psichiatria era soprattutto organicista, volle ascoltare l’angoscia dei pazienti psichiatrici emarginati come parte di una soggettività più complessa, convinto che le radici della malattia siano esistenziali e non cliniche. Convinzione che fa venir meno il rapporto simmetrico tra medico e paziente. La sua, infatti, è una psichiatria che nasce dalla visione della professione come relazione di ascolto, orientata a cogliere il senso di alcune grandi tematiche della vita.
Dopo anni spesi allo studio della professione scelse, infatti, di abbandonare la nomenclatura diagnostica per non dare per scontato il paziente, tanto che per lui il DSM, il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association è un “compendio negativo e arido della peggior psichiatria”. A ben vedere, le classificazioni dell’umano, per quanto comode a chi è intellettualmente pigro per natura o formazione, allontanano dalla strada dell’incontro, dell’ascolto, del dubbio ma sopratutto del senso di meraviglia di ciò che è l’uomo: l’oggetto più misterioso mai scoperto dalla scienza.

Il business della paura e della sofferenza
“Tutto d’un tratto sento il mio cervello come perforato da un trapano, trafitto, bucato, attraversato, trapassato”. Questa è una tra le tante storie che ho avuto modo di sentire da alcune persone sofferenti che rappresenta l’occasione per una riflessione sulla malattia e sul dolore – spesso cronico. Si tratta di persone che pellegrinano da un medico all’altro, sbalorditi dai loro dinieghi, dando prova delle loro imperizie. Errori di diagnosi e malafede sono alla base dei racconti di chi, sfortunatamente si è imbattuto in professionisti dalla cattiva formazione tecnica e umana.
Non si fa mistero del pressapochismo del sistema sanitario: pronto soccorso ingolfati, leggerezza nelle diagnosi, carenza di qualità umane in professionisti della salute che lavorano come in una catena di montaggio. Alcuni addirittura usano la posizione di medici con vanteria per far valere una valenza simbolica di ruolo che li fa sentire autorizzati a gestire problemi esistenziali personali senza avere nessuna qualità umana e/o preparazione che li faccia sentire simili a un loro simile.
E’ forse anche per questo che molte persone avallano le medicine parallele, i ciarlatani, l’omeopatia, preferendo le ipotesi della pandemia per tutti. Qualcuno si affida a cose esoteriche, diete miracolose o qualsiasi altra diavoleria New Age, credendoci per davvero. Tra i reparti di ospedale non è difficile udire storie di cure alternative al metodo scientifico: “Mio fratello si è ammalato di tumore e quando la chemioterapia andò male, si rivolse a una sciamana”. Ebbene sì, a quanto pare esistono persino sciamane nostrane – non d’importazione. Intendo una sciamana “vera e propria” con le piume in testa, stupefacente attrice dell’arte della scena, che porta i suoi seguaci nel bosco e fa abbracciare loro gli alberi per farli guarire dal cancro. Ma non si disdegna neppure il mago (non Silvan e i professionisti dell’arte magica, naturalmente), la maga o la cartomante…
Ciò accade perché vi è una maniera assolutamente peculiare con cui ciascuno reagisce alla malattia, maniera che è afferente alla biografia e all’esperienza personale del malato, al suo mondo di riferimenti culturali e religiosi. Se la malattia rischia di spersonalizzare il malato, è anche vero che il malato personalizza la malattia. Il che significa che ciascuno, nella sua malattia e a misura di ciò che gli è possibile e grazie all’aiuto di chi eventualmente lo assiste e accompagna, è chiamato alla responsabilità di dotare di senso la propria sofferenza.
Sono per la maggior parte storie di dolore, di vita, di paura, di morte e soprattutto di sfiducia nella scienza. Ovviamente anche di ciarlataneria e frodi, frutto di errori comunicativi tra medico e paziente. Ad ogni modo è importante interrogarsi come mai sembrerebbero più rassicuranti della medicina ufficiale, quella fatta di professionisti, probabilmente percepiti frettolosi e con poca pazienza. Mi riferisco ai rappresentanti delle professioni sanitarie che possono peccare di essere scontati e poco disponibili a quel rapporto umano che è parte della cura.
Forse questa non è una ragione esaustiva per fidarsi delle terapie alternative, cioè infondate, inutili e persino dannose. Il quadro è molto più complesso e ha a che fare con le appartenenze identitarie, senza la presunzione polemica di essere un vassallo della tribù dei giusti.
Sulla malattia e la paura che ne scaturisce si dice molto, ma forse, più che parlare di malattia occorrerebbe osservare e ascoltare il malato, colui che nella sua situazione di sofferenza ha veramente qualcosa da dirci e da insegnarci, colui che può rivelare noi a noi stessi, mettendoci alle strette circa il “serio” (?) della vita. In fondo che cos’è la vita se non essa stessa una malattia da cui non se ne esce vivi?