28 Dic 2018
Ho incontrato Dio sul treno delle cinque

“Ho incontrato Dio sul treno delle cinque”,

così esordisce John Keynes, un noto economista, dopo un casuale incontro con Ludwig Wittgenstein durante un viaggio verso l’Inghilterra.

Quella di Wittgenstein è la vita tormentata di un genio dall’intelligenza altissima e difficile da gestire, tanto che durante la discussione della tesi di dottorato, diede una pacca sulla spalla agli esaminatori replicando: “non fatene un dramma, so che non la capirete mai”.

Si riferiva al celeberrimo Tractatus logico-philosophicus che proponeva di tracciare il confine delle proposizioni sensate e vere.

Laureato in Ingegneria, padrone della matematica e della logica, oltre ad essere il filosofo del linguaggio per eccellenza, Wittgenstein era un mistico affascinato dalla vita monastica, Forse malato di una qualche forma di autismo, quando parlava dei suoi studi, dava le spalle al pubblico – probabilmente perchè era sempre in disaccordo su tutto con tutti.

Frequentarlo era tutt’altro che facile. Umorale e introverso, aveva diverse fobie, fra cui quella per gli insetti. Inoltre, aveva una serie di comportamenti bizzarri non facili da sopportare per chi gli stava vicino. Ad esempio, lavava i piatti nella vasca da bagno, e puliva il pavimento cospargendolo di foglie di tè bagnate che poi scopava via; camminava in un modo tanto esagitato che in un soggiorno in Irlanda i vicini gli impedirono di attraversare i loro campi, perché spaventava le pecore; Oppure, indossò per anni l’uniforme dell’impero austro-ungarico, ormai inesistente. Ma si potrebbe andare avanti a lungo.

Reduce dalle trincee della Grande Guerra e ricchissimo di famiglia, aveva rinunciato all’eredità per fare prima il maestro elementare in una località di montagna, poi il giardiniere in un convento. Ovunque andasse faceva parlare di sé per genio e stravaganza ma il suo lascito più grande resta la riflessione sul tema del linguaggio e il suo rapporto col mondo, il cui compito è quello di ricondurre le parole all’impegno quotidiano mostrandone i significati “in molteplici giochi linguistici”.

Il suo pensiero passa necessariamente attraverso le sue opere, ben intesi – di difficile lettura ma non impossibile. Basta non immaginarselo mentre ci da una pacca sulla spalla!

28 Dic 2018
Chi erano gli “scemi di guerra”

Durante e dopo la Prima Guerra Mondiale migliaia di soldati furono ricoverati per disturbi mentali: negli ospedali si trovavano reduci estraniati e muti, che camminavano come automi, con i muscoli irrigiditi. La gente li chiamava ingiustamente “scemi di guerra”. Ma chi erano davvero?

Le cartelle cliniche parlavano di “tremori irrefrenabili”, di “ipersensibilità al rumore”, di “uomini inespressivi, che volgono intorno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia”, che “camminano con le mani penzoloni e piangono in silenzio” o che “mangiano quello che capita, cenere, immondizia, terra”.

Questi quadri clinici suscitarono subito l’interesse degli psichiatri, specialisti allora emergenti (in Italia erano stati riconosciuti ufficialmente nel 1872 ed erano diventati molto influenti a partire dal 1904, grazie alla legge che istituiva i manicomi). Su Lancet, tra le riviste mediche più autorevoli, nel 1915 lo psicologo Charles Myers usò per la prima volta l’espressione shell schock “shock da bombardamento”o, come lo chiameremmo oggi, disturbo da stress post-traumatico.

Myers ipotizzava che le lesioni cerebrali fossero provocate dal frastuono dei bombardamenti oppure dall’avvelenamento da monossido di carbonio. Ma presto fu chiaro che alla base di questi disturbi c’era qualcos’altro, dal momento che i sintomi si manifestavano anche in persone che non si trovavano in prossimità di bombardamenti.

l neurologo francese Joseph Babinski nel 1917 attribuì i sintomi a fenomeni di isteria, disturbo che si riteneva diffuso solo tra le donne (isteros significa utero, in greco). Suggerì quindi di curarlo come allora si trattava l’isteria femminile: con l’ipnosi E in effetti i trattamenti talvolta funzionavano, nel senso che i sintomi scomparivano o si riducevano. Si diffuse perciò l’idea che questi quadri clinici fossero frutto di simulazioni, messe in atto per non combattere ed essere congedati.

Il che diede il via libera all’accusa di “femminilizzazione” o di “omosessualità latente”, e a una serie di trattamenti di tipo decisamente
punitivo, come le aggressioni verbali e le “faradizzazioni”, forti scosse di corrente elettrica alla laringe (in caso di mutismo) o alle gambe (in caso di immobilità).

«Questa disciplina feroce fu messa in atto soprattutto in Italia, dove persistevano atteggiamenti ispirati alle idee di Cesare Lombroso, che classificavano il malato come un essere inferiore, un soggetto debole e primitivo», sottolinea Bruna Bianchi, studiosa della Grande guerra presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e autrice di La follia e la fuga (Bulzoni editore).

«Inoltre, in un Paese in cui la leva era obbligatoria, non si voleva attribuire alla guerra la causa del disagio psichico: meglio sostenere che il conflitto contribuiva a rivelare devianze o degenerazioni in individui già predisposti».

Anche per questo in Italia quella dei traumi psichici conseguenti alla Grande guerra fu una pagina presto chiusa e rimossa. E se circa 40.000 uomini con disturbi mentali finirono rinchiusi nei manicomi statali, una quantità ben più numerosa fece ritorno a casa e in quelle condizioni fu accolta dalle loro famiglie.

E fu qui, anche per prendere le distanze dal carico emotivo di quegli sguardi assenti e per poter ricominciare a vivere dopo il trauma collettivo dell’esperienza bellica, che la gente prese a chiamare quei giovani uomini con un termine feroce e ingiusto: “scemi di guerra”.

Fonte: focus.it

28 Dic 2018
Il codice dell’anima

Quante volte usiamo frasi come
“sono fatto/a così”, “è il mio carattere”, “sono come mia madre/padre, nonno/nonna”, “faccio così perché…”.
Resta il fatto che ancora oggi gli scienziati non sono arrivati a definire l’origine del nostro destino.
James Hillman, il noto psicologo anglo americano, afferma nel suo libro “Il codice dell’anima”:

“Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze sociali, io mi riduco a mero risultato.
Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare alla luce dei miei anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima”.

Sarà una realtà scomoda, faticosa,
ma siamo noi i generatori del nostro destino.

28 Dic 2018
Quando hai la febbre alta

La malattia può rivelare la desolazione e i “deserti dell’anima, ma può anche essere occasione di grazia, scriveva Virginia Woolf.

Il mondo ci richiede di essere veloci, efficienti, competitivi e produttivi. Una modernità questa, che taglia fuori tutto ciò che non è monetizzabile.
Nessuno ha più il tempo di soffermarsi a guardare il cielo, il sole, la natura…
Eppure siamo umani!

In un celebre saggio della fine degli anni ’20 dal titolo “Sulla malattia”. Virginia Woolf si chiede e ci chiede se quando siamo malati: la malattia ci accade, ci cade davanti o siamo noi a caderci dentro?
Quando ci ammaliamo sembra che le maglie del mondo improvvisamente non tengano più, quello che eravamo ieri ci sembra di non esserlo più e nello stato alterato della febbre, della tristezza o della paura iniziamo a farci le domande nuove, a ricordare fatti che pensavamo di aver dimenticato, percependo la vita in una maniera alterata, al tempo stesso, distorta rispetto a quando siamo immersi nella routine, ma per qualche ragione più vicina alla Verità.
Scrive a tal proposito Virginia:

“Con la malattia la simulazione cessa. Appena ci comandano il letto, o sprofondati tra i cuscini in poltrona alziamo i piedi neanche un pollice da terra, smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eretti; diventiamo disertori. Loro marciano in battaglia. Noi galleggiamo tra i rami nella corrente; volteggiamo alla rinfusa con le foglie morte sul prato, non più responsabili, non più interessati, capaci forse per la prima volta dopo anni di guardarci intorno, o in alto – di guardare, per esempio, il cielo”.

Quella che certamente è una “disgrazia”, la malattia, si rivela anche per certi versi uno stato di grazia, un cambiamento di postura e di prospettiva che modifica la nostra percezione del reale e che ci dà la possibilità di guardare dove non abbiamo guardato e dove gli altri, gli eretti, vigili, indaffarati, ossessionati dal profitto, non hanno occasione di guardare.

Vista così, la febbre può rappresentare un’opportunità per essere più lucidi.

28 Dic 2018
Walter Bonatti: un Sisifo felice

Oggi voglio condividere con voi un articolo in memoria di un uomo STRA-ORDINARIO che proprio 7 anni fa ci lasciava: Walter Bonatti.
Non mi dilungherò a spiegare quanto la sua esistenza abbia rivoluzionato il mondo dell’alpinismo, della montagna e dell’essere umani.
Condivido il suo ricordo su una pagina di psicologia perché con le sue imprese ci ha insegnato che la montagna più difficile da scalare resta sempre quella dentro di noi…
E sono certa che in questo momento starà guardando da una vetta di 9000 mt.

“Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno fino alla cima della montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso.
Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile senza speranza.

Ma in questo consiste la gioia nascosta di Sisifo.
Il destino gli appartiene.
Il macigno è cosa sua.
Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo.
Bisogna immaginare Sisifo felice”.

Albert Camus, Il mito di Sisifo.

28 Dic 2018
Il lato creativo della follia

Yayoi Kusama è un’artista giapponese di fama mondiale. Da piccola la sua particolarità fu tradotta in una malattia mentale capace di spiegare la sua ossessione per i pois per tramite di allucinazioni. Incredibilmente è proprio grazie a queste visioni che è diventata famosa, per il semplice fatto che ha preso spunto da ciò che “vedeva” e lo ha trasformato in arte.

In un’intervista ha dichiarato: “La mia arte proviene da allucinazioni che solo io posso vedere. Traduco le allucinazioni e le immagini ossessive che mi affliggono in sculture e dipinti… Creo pezzi anche se non vedo le allucinazioni, però. Traducendo le allucinazioni e la paura delle allucinazioni in opere, ho cercato di curare la mia malattia.”

Questa donna ha scelto di vivere in un reparto psichiatrico la sua vita.
Credo che Yayoi sia eccezionalmente una “paziente psichiatrica” che si possa definire “libera” in una struttura di contenzione. Si, perchè gli altri e poi sè stessa le hanno concesso il diritto o il privilegio di essere differente…Con la speranza che nessuno mai la debba “curare mentalmente” a discapito del suo innegabile talento

28 Dic 2018
L’educazione alla Bellezza

«Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale, sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile… Anche le stelle». Così dice il Matto a Gelsomina in una scena della Strada di Fellini, in cui la donna si lamenta del fatto che la sua vita non serve a nulla. Il Matto, gentile acrobata ambulante, ha la capacità di trovare “il sublime nel quotidiano, per questo non perde mai il buon umore e le dà speranza. Un’arte che richiede non poco impegno: molto più comodo il lamento (di cui gli Italiani sono campioni). La pigrizia usa spesso la maschera del pessimismo e consente di rimanere inerti di fronte al male e alle difficoltà di tutti i giorni. Rivoluzionario è invece fronteggiare “il brutto” e rimanere di buon umore, perché solo così possiamo combatterlo e scorgere, anche se con impegno e pazienza maggiori, il vero brillare delle cose e delle persone. Certo è difficile scovare la bellezza sottile, offuscata dalla fatica dei giorni, ma se non impariamo a trovarla, aspettare che essa si autoriveli, è come condannarsi alla bruttezza eterna.
In un’epoca in cui tutto sembra precario, poco chiaro e di un difficile estenuante, l’educazione alla bellezza è essenziale perché salvifica; lo diceva anche il Todorov: “La bellezza salverà il mondo”.

28 Dic 2018
Psicanalisi o Psicoterpia?

L’enorme differenza tra #psicoanalisi e le #psicoterapiecognitive e costruttiviste sta sia nell’approccio ai problemi che nel trattamento degli stessi. Mentre la prima, lunghissima, procede attraverso un’indagine dettagliata del percorso di vita per andare alla scoperta di cause, che secondo Freud erano sempre o quasi da ricercare nella sfera sessuale; la seconda, parte da un principio base: “il qui e ora”.
I problemi che affliggono la maggior parte delle persone come ad esempio: ansia da prestazione, stress, disturbo del sonno, problemi sessuali, disturbi alimentari, dipendenze varie… devono poter avere una risoluzione in tempi brevi. Ossia, al di là di ciò che mi è successo da piccolo, ORA che sono grande, e che indietro non posso più tornare, che cosa devo fare per star bene e possibilmente scongiurare il problema che mi perseguita? L’approccio delle terapie brevi è concreto e offre strumenti pratici e validi per affrontare tanti problemi in tempi ragionevoli. Queste modalità di psicoterapia sono state adottate da militari, manager e professionisti vari perché non solo dispiegano i loro effetti sulle cosiddette “patologie” o disturbi ma si rivelano estremamente efficaci anche in chi vuole migliorare la propria risposta alle costanti difficoltà della vita, perseguendo nel contempo l’obiettivo di migliorarsi – sopratutto come esseri umani.

28 Dic 2018
Quando l’ansia chiama

Chi soffre l’ ANSIA, generalmente mette in atto più o meno consapevolmente delle strategie.

Alcune di queste sono: evitare situazioni potenzialmente ansiogene, chiedere aiuto, cercare di reprimere pensieri negativi…
Ma queste “tentate soluzioni”, invece di rimediare all’ansia, LA ALIMENTANO; Paradossalmente più cerchiamo di allontanarla e più si rivelerá a noi come un fantasma.
Una strategia funzionale per vincerla, quindi, non è quella di respingerla ma ACCOGLIERLA. Più familiarizziamo con l’esperienza che ci fa più paura e meno questa si presenterà: “bisogna guardare la paura in faccia perché diventi coraggio!”. Se vogliamo che l’ansia non bussi più alla nostra porta, nel momento in cui la facciamo entrare, non avrà più motivo di spaventarci più di quanto possa fare bussando.

A questo punto, se l`ansia è tutte le volte che non le hai risposto, grande quante le volte che l’hai evitata, nulla di peggiore può succedere se le risponderai.
“Pronto? Mi dica!”

28 Dic 2018
Cosa c’entra Frank Zappa con il pregiudizio?

Ciò che è sconosciuto o insolito viene percepito dalle persone come una minaccia perché non abbiamo categorie in cui porlo.
Quando incontriamo qualcosa di nuovo, ignoto, cerchiamo di renderlo familiare, riducendo la complessità in somiglianza ma questo atteggiamento comune può essere la genesi del pregiudizio.

Per capire meglio questo processo vorrei raccontarvi un aneddoto su Frank Zappa.

Negli anni Sessanta una rete californiana mandava in onda uno spettacolo condotto da un certo Joe Pine, famoso per l’atteggiamento aggressivo che usava regolarmente con i suoi ospiti in trasmissione, quasi tutti attori e cantanti marginali in cerca di un po’ di pubblicità. L’obiettivo del conduttore era quello di provocare volutamente gli ospiti, con lo scopo di metterli in imbarazzo e in ridicolo. Secondo alcuni, questa sua aggressività era dovuta, almeno in parte, a una grave minorazione, una gamba amputata che l’avrebbe reso particolarmente acido e ostile.
Una sera venne ospite della trasmissione Frank Zappa, musicista rock. Era ancora il periodo in cui gli uomini con i capelli lunghi suscitavano indignazione.Ora voi direte che cosa c’entra questo racconto con i pregiudizi?
Lo capirete da quello che fu il loro primo scambio di battute.
Pine: “Dai capelli lunghi si direbbe che lei è una ragazza”
Zappa: “Dalla gamba di legno si direbbe che lei è un tavolino.

A volte avere una visione miope della realtà sacrifica il vero significato di ciò che stiamo guardando.