Il comportamento umano, e a maggior ragione quello che definiamo riduttivamente tossicodipendente, appartiene a molteplici domini della conoscenza e nessuna disciplina per quanto evoluta può imporre i suoi metodi come unici ed esclusivi. Metodi che nella maggioranza dei casi trasformano ogni devianza, trasgressione e diversità in patologia. L’uso e abuso di droghe ci pone invece di fronte a problemi che non possono essere affrontati solo con il sapere farmacologico e l’interpretazione dello psichiatra, nè tanto meno con un approccio organicistico che tratta la tossicodipendenza come “difetto di un cervello da sistemare”.

Non è possibile infatti rinunciare a configurare l’agire umano, anche quello dei “drogati”, senza considerare il sistema di credenze, intenzioni, movimenti, sentimenti, aspirazioni, attese e tanto altro. La comprensione del mondo costruita da coloro che sono sotto l’effetto di una droga richiede nella maggior parte dei casi la comprensione del loro modo di pensare ed agire. I pregiudizi dati dal considerare il tossicodipendente come un’entità clinica oggettivata dalla sua devianza impediscono la comprensione dell’immaginario di chi fa uso di droghe.

Attorno al consumo di droghe sono nate diverse teorie e diverse modalità sia di gestione che di presa in carico del problema. L’approccio biomedico si basa sulla teoria “dell’esistenza del corpo” dove la malattia è di esclusiva matrice corporea. Di conseguenza ci troviamo all’interno di un processo che parte dall’anamnesi per arrivare alla cura, ma limitato dal punto di vista della considerazione della persona e della sua “malattia”. Tale modello, quindi, affronta il tema delle dipendenze a partire dalla classificazione fatta dall’OMS che definisce la tossicodipendenza come una malattia ad andamento cronico e recidivante, sostenendo che alla base della dipendenza da una droga vi siano anomalie, disfunzioni fisiologiche o biochimiche. Possiamo evincere che tale modalità operativa si basa solo ed esclusivamente sulla cura della malattia da un punto di vista medico/farmacologico senza considerare la persona nella sua totalità.

L’approccio biopsicosociale, invece, nasce dalla necessità di prendere in considerazione l’individuo nella sua multifattorialità, attuando degli interventi volti a generare “salute”. Di conseguenza l’approccio farmacologico e quello psico-socioterapeutico sono in sinergia. La dipendenza viene analizzata secondo diversi fattori: natura biologica (genetica, neurologica), psicologica (mentale) e sociale (contesto e relazioni). Qui la persona è posta al centro di un sistema che si occupa di molteplici variabili che interagiscono tra loro e sono in grado di influenzare il decorso della malattia. Il modello biopsicosociale, inoltre, pensa le dipendenze in termini di devianza, vale a dire che contestualizza le azioni di uso e abuso di sostanze anche come trasgressione a una norma morale socialmente condivisa. (Non dimentichiamo che un determinato comportamento se ridotto entro un quadro di spiegazione e intervento formalmente medico, talvolta, viene “sanzionato” con lo strumento della diagnosi e della cura poiché infrange norme sociali mascherate da norme biologiche). Non ribadiremo mai abbastanza che la “mente” non è l’alter ego del corpo biologico in medicina!

 Apparirà ora più chiaro al lettore che entro una cornice come quella del modello biopsicosociale si restituisce al comportamento di consumo di droghe una conoscenza che si avvicina maggiormente alla complessità del fenomeno.

Che vengano assunte come rimedio esistenziale, cura di sé, sostegno all’autoefficacia, per la trascendenza e altro, le droghe non possono essere separate nei loro effetti psicobiologici dai significati soggettivi che ogni consumatore attribuisce alla propria esperienza di consumo, riferimento importantissimo per ogni sistema d’identità.

Nel suo Paradisi artificiali, Baudelaire, riferendosi agli effetti prodotti dall’hashish, scriveva che l’effetto della droga dilata l’esperienza limitandosi a rifletterla come uno specchio che non aggiunge niente di suo. Ciò sfata il mito di un potere estrinseco alla sostanza, capace di creare dal nulla sensazioni e indurre modificazioni radicali nelle caratteristiche individuali. Accettare che la droga non produca ma amplifichi, sentimenti ed emozioni già presenti nell’individuo, significa relegare la chimica in secondo piano e sensibilizzarsi maggiormente al sistema di credenza del consumatore.

Lo capiremmo ancor di più se vi raccontassimo del nlem vore, uno stato mentale che la comunità buitista dei Fang del Gabon raggiunge sotto effetto di iboga. Ma questa storia, che non è una canzone di Battiato, ve la racconteremo un’altra volta.

 Con la Dott.ssa Elisa Piali – Psicologa delle Dipendenze