Che le cosiddette “malattie mentali” dipendano dal contesto culturale di un dato momento storico o addirittura dal “contagio comportamentale” di alcune mode, è una questione ormai nota.

Nelle regioni del Sud-est asiatico, come in Malaysia, Indonesia e Nuova Ghinea si soffre l’Amok. La parola si riferisce a una condizione temporanea di furia violenta e omicida. Il soggetto colpito da questa sindrome che trae origine da un’offesa intollerabile, aggredisce dapprima i famigliari e poi gli estranei. Durante la furia omicida il soggetto, ormai incontrollabile, corre e salta all’impazzata per strada colpendo chiunque incontri, senza distinzione.

Emil Kraeplin classificò questo comportamento come “malattia mentale” ma dobbiamo arrivare ad autori successivi per capire che la manifestazione di tale comportamento è implicata soprattutto dalla cultura e dalle problematiche locali. Negli anni ‘70 in America ci fu un aumento di diagnosi di “personalità multipla” dato che un americano su tre era convinto di avere due, tre, dodici personalità diverse. Un’affezione, questa, che ai giorni nostri pare essere scomparsa.  In compenso oggi siamo travolti da scolaretti travagliati da Deficit di attenzione e Iperattività (non basta più dire “è un bambino vivace”). Queste nuove forme d’essere deviante sono quindi trattate con quintali di Prozac e Ritalin.

Il punto è che al passare del tempo spuntano i “nuovi modi d’esser matti”: ciò che era lecito prima non lo è più dopo e si sostituisce con una nuova e necessaria moda –lità d’essere.

Ricordo che qualche anno fa si battibeccò molto sul caso di un chirurgo che amputò gli arti a pazienti perfettamente sani su loro specifica richiesta, dichiarando di sentirsi più felici senza. I giornalisti scoprirono che il fenomeno –noto come acrotomofilia– era meno raro di quanto potesse sembrare, scovando moltissimi casi di persone desiderose di perdere le gambe.  Su internet risalirono a salotti virtuali che scambiavano fantasie su quant’è bello essere senza gambe, affermando di non sentirsi veramente loro stessi così “come mamma li ha fatti”.

È in questi casi la chirurgia, un intervento estetico o un trattamento psichiatrico? Appare obbligatorio interrogarsi sullo status etico di queste questioni che io trovo inquietanti nella misura in cui viene data la possibilità di insorgenza di questi bizzarri desideri moderni.

Più si parla di una cosa e più si aumenta la probabilità che una moda (nel bene e nel male) si diffonda, offrendo i copioni comportamentali di una condotta che, prima di essere pubblicizzata, era impensabile nella sua attuazione. Pensiamo all’aumento di agressioni con acido, alle volte che si usa la parola “femminicidio”, al Blue Whale

Non appena il comportamento diventa frequente e quindi una moda, gli psichiatri (solo quelli brutti per fortuna) cominciano a diagnosticare psichiatricamente il fenomeno, poi lo reificano nei manuali, sviluppano strumenti per musurarlo e valutarne la gravità; infine, dopo aver mandato i malcapitati a qualche centro di riabilitazione morale, si scrive di loro su riviste prestigiose, contribuendo così alla propagazione del  nuovo disturbo mentale.

Finchè si fa credere che uno debba trovare il suo vero io, quello autentico (che è una contraddizione perché essere sé stessi equivale ed essere qualcun altro non essendo gli unici sulla terra), v’è un invito sottile all’esercitare il massimo grado di libertà che prevede anche condotte eticamente discutibili.

Ma il vero io è un pozzo vuoto senza fondo, sporgersi può condurre a un abisso che definisce i nuovi modi d’essere matti. Talvolta è più raccomandabile non essere ciò che si potrebbe diventare.